domenica 15 luglio 2012


Oggi vorrei essere a Tokio, dentro ad una caffetteria della catena Denny’s. Stare li, una formica dentro al più grande formichiere del mondo, un puntino che in silenzio beve un caffè guardando gli altri, fuori il cielo che diventa scuro e i riflessi di mille neon che, filtrati dai vetri, si posano con leggerezza sui tavoli, sulla mia faccia, per accarezzarmi, per regalarmi nuove prospettive, nuovi occhi per guardare il mondo fuori e dentro me. Invece sono al lavoro, nel mio centro commerciale. Devo ammettere che a volte l’atmosfera qui è surreale tanto quanto nei racconti di Murakami.
Ed è proprio un suo libro a venirmi in aiuto. La letteratura al mio servizio per teletrasportarmi ovunque io voglia.
Il titolo è After Dark.

“Gettiamo un’occhiata intorno, poi fermiamo lo sguardo su una ragazza seduta vicino alla finestra. Perché proprio lei?  Perché non un’altra? Non lo sappiamo. Eppure per qualche motivo la nostra attenzione è attirata da quella ragazza … Così, è una cosa che ci viene spontanea. Seduta a un tavolo per quattro persone, sta leggendo un libro. Indossa una felpa grigia col cappuccio, dei jeans, e ai piedi ha delle scarpe da ginnastica gialle scolorite da innumerevoli lavaggi. Ha appeso allo schienale della sedia accanto alla sua un giubbotto, piuttosto malandato, anche quello, decorato con il logo di un’università. Quanto all’età probabilmente è una studentessa del primo anno. Capelli corti e neri, lisci, quasi niente trucco e nemmeno un gioiello. Un viso piccolo e magro. Occhiali dalla montatura nera. Ogni tanto fra le sopracciglia le si forma una ruga, segno che sta riflettendo”.

La storia, o meglio le storie che si intrecciano in questo romanzo hanno come sfondo un love hotel, in alcune stanze al buio, la metropoli di notte e una caffetteria, per l’appunto, nella Tokio contemporanea.
Il sonno, l’assenza di esso e lo stato semicomatoso sono i temi portanti del libro. Lo stato di incoscienza in cui chiunque, anche solo dormendo, si è trovato nella vita, assume un significato lontano dalle banalità e degli stereotipi. Leggendo questo libro potreste arrivare a capire non solo che spesso chi pensa di essere sveglio in realtà è molto lontano dall’esserlo, ma anche che molte volte chi crede di aver capito tutto è quanto mai lontano dalla verità. Ma soprattutto potreste capire che non sempre c’è una spiegazione a tutto ciò che accade: se è vero che tutto accade per un motivo, bisognerebbe ricordarsi che i motivi stessi talvolta sono solo ragioni di nascita, casualità, combinazioni di possibilità in divenire e per questo non seguono schemi e logiche precise. Uscire dal labirinto ossessivo dei perché forse potrebbe aiutare le teste complicate a dare un po’ più di importanza al silenzio e ad ascoltare i propri di motivi, giusti o sbagliati che siano.
La forza di questo racconto, abbastanza corto rispetto alla media degli scritti murakamiani (sono solo 178 pagine) è concentrata nella potenza del sogno e come un sogno va letto, senza volontà di interpretare in maniera precisa le storie che si intrecciano e si sovrappongono senza quasi sfiorarsi, ma abbandonandosi ad esso e al piacere sottile che solo le cose evanescenti, quelle cose che non riusciamo completamente ad afferrare, sanno provocare.

Ecco alcuni estratti dal romanzo, per chi avesse voglia di sbirciare tra le pagine prima di andare a comprare il libro.

·         Estratto numero uno, dal capitolo settimo

“L’interno di un piccolo supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. I cartoni di latte scremato Takanashi sono al banco frigo. Fischiettando la melodia di Five Spot After Dark Takahashi sta cercando il latte. Non ha con se né borse né pacchi. Protende una mano e prende un cartone di latte Takanashi, poi si accorge che è scremato e storce il viso. Per lui, si tratta di una questione che ha uno stretto, inevitabile rapporto con la morale. Il problema non è soltanto la quantità di grasso contenuta nel latte. Posa quello scremato al suo posto e prende quello intero che si trova accanto. Controlla la data di scadenza e mette il cartone nel cestino. Poi si sposta al reparto della frutta e prende in mano una mela. La studia da tutte le parti sotto la luce. Non gli piace. La rimette a posto e ne piglia un’altra, la ispeziona allo stesso modo. Ripete l’operazione diverse volte finché non ne trova una soddisfacente … anche se non è del tutto convinto. Chissà perché, sembra che per lui il latte e le mele siano alimenti carichi di un significato speciale. Si dirige verso la cassa, ma passando vicino a un pacco di plastica nota che contiene delle confezioni di salame di pesce, e ne prende una. Ne controlla la data di scadenza stampata in un angolo, poi la mette nel cestino. Alla cassa paga infila il resto a casaccio in una tasca dei pantaloni ed esce.
Si siede sul guardrail di fronte al supermercato e con il bordo della camicia strofina bene la mela. La temperatura deve essersi abbassata, perché il suo fiato è leggermente bianco. Tracanna tutto il latte quasi in un sorso solo, poi addenta la mela. Mastica scrupolosamente un boccone dopo l’altro riflettendo su chissà cosa, e di conseguenza per mangiarla impiega un sacco di tempo. Quando finisce si strofina la bocca con un fazzoletto stazzonato, infila il torsolo e il catone del latte nella busta di plastica, e va a buttarla nel cestino che si trova davanti al negozio. Il salame di pesce lo mette nella tasca del giaccone. Guarda l’ora sul suo orologio arancione, poi alza le braccia e si stira più che può”.


·         Estratto numero due, anche lui dal capitolo settimo

“Tutto solo l’uomo lavora di fronte allo schermo del computer. È il cliente che è stato ripreso dalla videocamera dell’Alphaville. Quello che indossava un’impermeabile grigio chiaro e ha ritirato la chiave della stanza 404. Sta scrivendo sulla tastiera senza nemmeno guardarla. A una velocità impressionante. Eppure le sue dita riescono a stento a seguire la rapidità del suo pensiero. Tiene le labbra serrate. Per tutto il tempo resta assolutamente impassibile. Il suo viso non mostra né soddisfazione né contrarietà riguardo all’andamento del lavoro. Ha arrotolato le maniche della camicia fino al gomito, sbottonato il colletto, allentato la cravatta. Su un foglio che tiene accanto a sé, quando ne ha bisogno annota dei numeri e dei segni a matita. Una lunga matita color argento con la gomma da cancellare a un’estremità. C’è impresso sopra il nome della ditta, VERITECH. Altre sei matite dello stesso colore sono allineate con ordine su un apposito vassoi etto. Tutte lunghe uguali. Tanto appuntite che più di così non si potrebbe.
La stanza è grande. Tutti i colleghi se ne sono andati: nell’ufficio è rimasto solo lui. Da un piccolo stereo cd poggiato sulla scrivania esce il suono né troppo alto né troppo basso di una sonata per pianoforte di Bach. Nell’esecuzione di Ivo Pogorelić . Suite inglese. La stanza è quasi tutta buia, solo il posto dove si trova l’uomo è illuminata da una lampada al neon sul soffitto. È una scena che Edward Hopper avrebbe potuto dipingere col titolo «Solitudine». All’uomo però quella situazione non mette particolare tristezza. Anzi, semmai è contento quando non ha gente intorno. Può concentrarsi senza che nessuno lo disturbi e portare avanti il lavoro ascoltando la musica che gli piace. Un lavoro che gli va a genio. Perché quando vi si concentra, perlomeno in quei momenti, non ha bisogno di arrovellarsi sui problemi reali. Perché a patto di non risparmiare né tempo né fatica, può risolvere ogni dubbio logico o analitico. Mentre ascolta a un livello semiconscio la musica, osserva lo schermo del computer e muove le dita a una velocità che non ha nulla da invidiare a quella di Pogorelić. Non fa gesti inutili. Nella stanza esistono soltanto l’elaborata musica del diciottesimo secolo, lui e il problema tecnico che gli è stato sottoposto”.


·         Estratto numero tre dal capitolo ottavo, esageratamente bello

“Il nostro punto di osservazione torna alla stanza di Asai Eri. A una prima occhiata non sembrano essersi verificati mutamenti. È passato un po’ di tempo e quindi l’oscurità si è fatta più profonda, il silenzio più pesante, nient’altro.
… anzi no. Non è vero. Qualcosa è cambiato. In questa stanza c’è una differenza fondamentale rispetto a prima.
È una differenza che salta subito agli occhi. Nel letto non c’è nessuno. Non si vede più Asai Eri. A giudicare dal fatto che le lenzuola non sono spiegazzate, si direbbe che durante la nostra assenza lei si sia svegliata, si sia alzata e sia andata via. Il letto è stato rassettato ed è in perfetto ordine. Non c’è traccia del fatto che fino a poco fa vi dormiva Eri. È molto strano. Cosa sarà mai successo?
Il televisore è rimasto acceso. La scena è la stessa, sullo schermo si vede la stanza di prima. Una vasta camera vuota senza mobili. Anonime lampade al neon, pavimento di linoleum. Ora però l’immagine è del tutto stabile, c’è da non crederci. Non si sente più il brusio elettrico, i contorni delle figure sono nitidi, la foschia è sparita. Il cavo è stato collegato da qualche parte  - chissà dove – in modo che l’immagine non tremi. Lo schermo illuminato del televisore rischiara la stanza di Eri come la luna piena bagna di luce una prateria deserta. Tutti gli oggetti, nessuno escluso, sono in maggiore o minor misura esposti al magnetismo emesso dal televisore.
Nell’immagine sullo schermo, l’uomo senza volto è sempre seduto sulla sedia di prima. Indossa sempre un vestito marrone, ai piedi ha delle scarpe di cuoio nere, è sporco di polvere bianca, sulla faccia ha una maschera lucida e aderente. Anche la sua posizione non è diversa da quella che abbiamo visto poco fa. Tiene la schiena eretta, le mani posate sulle ginocchia, e sta leggermente chino in avanti a osservare qualcosa. I suoi occhi sono nascosti dietro la maschera. Dal suo atteggiamento però si capisce che li tiene fissi su un punto. Ma cosa può mai guardare con tanto fervore? Per rispondere alla domanda che formuliamo mentalmente, la telecamera si sposta seguendo il suo sguardo. Arriva fino a un letto. Un semplice letto di legno a una piazza … dove dorme Asai Eri”.

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