"Ma il giorno che ci apersero i cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende, che potemmo finalmente inebriarci del loro destino di fiori, oh, fu quello il tempo in cui tutte le nostre inquietudini segrete disparvero, perché eravamo vicine a Dio, e la nostra sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata fiore essa stessa."
Chissà da dove
arrivano le domande. Forse dal cielo, carico di stelle, fuori dalla mia finestra,
forse dal buio, di sicuro da lontano. Una domanda, oggi, mi si è insinuata nella
caverna del cuore, e poi ha preso forma: perché la poesia nasce spesso dal
dolore, dalle permanenze forzate, dalla parte oscura delle cose di cui non
comprendiamo la natura? Perché l’arte vorrebbe essere la risposta alle domande
inevitabili? Perché il senso che cerchiamo non può essere biologico?
Ci ho pensato
leggendo Alda Merini. Quando la Merini scrive, follia e lucidità si alternano nella
narrazione prendendosi gioco delle categorie di spazio e tempo; lampi colorati
e schegge di pensiero fuggono dal suo cervello, prima ancora di essere state
pensate, si fissano sulla carta come custodi di una verità assoluta e per
questo incomprensibile.
Dal manicomio che l' ha ospitata per decenni, la Merini ha visto il male racchiuso dentro ad un bozzolo
di seta oscura, crescere e trasformarsi in una farfalla nera. Lei, minuscola e
forte, ha trovato la forza di scuotersi dal torpore malefico, di salire sul suo
corpo cavalcandola, dirigendone il percorso,
per salire in alto, fino al sole più intenso che scioglie il corpo scuro
dell'animale, fino ad arrivare in un regno di quiete dove i pazzi hanno ragione
d'essere e non necessariamente di guarire.
Il suo corpo, incatenato,
nutrito con puntualità e precisione dai suoi aguzzini.
Il suo spirito in
viaggio verso la luce.
Forse è vero che Qualcuno
(nei suoi insondabili disegni) decide di seminare proprio nel cuore dei “diversi” un
tipo di grazia che i sani comuni mortali, non potranno mai partorire.
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