martedì 26 febbraio 2013


Senza musica potrei espletare le mie funzioni organico-vitali ma le mie interiora si prosciugherebbero. Oggi sto continuando ad ascoltare a ripetizione una vecchia canzone di Billy Joel “Downeaster Alexa”, come un mantra, non chiedetemi perché.  Per una serie di strani collegamenti, difficilmente spiegabili,  mi è venuta voglia di riguardare “Departures” di Yōjirō Takita.
Guardando questo film alcune domande  si sono attorcigliate nella mia testa , prima fra tutte: è davvero tutto qui? Cosa succede quando moriamo? Trasferimento istantaneo in una certa realtà sicura benché non veduta ma solo immaginata? Vaghiamo per un po’ nell’aere’ come il Grande Cocomero dei Peanuts? Quante dimensioni esistono? Quanti universi speculari al nostro ci potrebbero essere? Le porte della percezione che noi abbiamo della realtà sono davvero parzialmente chiuse? Si apriranno mai trasformando la visione di ciò che chiamiamo Unica realtà in qualcos’altro, in una nuova dimensione che magari potremo chiamare realtà Due?
Ovviamente il film non risponde a nessuna di queste domande però…
In Giappone la tradizione vuole che la preparazione del corpo del defunto si svolga sotto gli occhi dei parenti, e che venga eseguita come un rito, come una vera e propria cerimonia. Questo per rendere onore alla memoria del morto e restituirgli la dignità che inevitabilmente il processo mortifero porta via con se. In sostanza il corpo viene amorevolmente accompagnato  verso il suo ultimo viaggio, o per alcuni, verso ciò che è soltanto un passaggio. Daigo Kobayashi è un bravissimo violoncellista che però è rimasto senza lavoro perché la sua orchestra si è sciolta, e che per mantenersi economicamente risponde ad un annuncio di lavoro che preannunciava occuparsi di partenze. Di quali partenze fossero, Daigo proprio non sapeva.  Eppure il nostro riflessivo amico si rende conto di quanto sia importante mantenere la famiglia e intraprende con serietà il nuovo lavoro, nonostante le enormi difficoltà nell’avere a che fare con la decomposizione e il sudiciume che contraddistingue l’ultimo atto della farsa umana. Questo lavoro gli permette di guardare da vicino i comportamenti degli uomini di fronte al dolore più estremo ed impara ad amare il suo lavoro osservando la dedizione del suo capo nel compierlo con rispetto e sensibilità. In questo film vengono toccati i tasti profondi della Perdita, dell’ Assenza,  della Mancanza, del  Desiderio e dell’Accettazione. Voler riabbracciare le persone che sono morte è il desiderio più straziante e lacerante che possa esistere. Non per niente si dice che a tutte le cose c’è  una soluzione tranne che alla morte. Cosa lasciamo negli altri, quando ce ne andiamo? Daigo se lo chiede. Soprattutto quando scopre che suo padre, che lo aveva abbandonato molti anni prima, è appena morto.
 
Finti individualisti che non siamo altro. Ce ne andiamo e ritorniamo sempre e ogni volta lasciamo pezzi di noi all’altro, proprio nel momento in cui partiamo. Forse per alleggerirci il bagaglio, forse per non essere dimenticati. Che bruceremo o no, che le nostre ceneri si disperdano nel vento  o che ci trasformiamo in concime per i fiori, l’unica verità che mi ha suggerito questo film, e per fortuna non sono tra quelli che credono che esista un’unica verità,  è che siamo tutti legati che siamo immersi in una rete, pesci impazziti in un mare infinito, esseri desideranti, motori scoppiettanti di energia, di buoni propositi, di sogni, di pensieri, che si trasformano e si mescolano alle nuvole per poi traslocare in altre dimensioni, creando un collegamento tra noi e dio, tra dio e gli universi. Tra me e te.

 
Se avessi i superpoteri, solo per un giorno, mi piacerebbe liberarmi dalla matrice e vorrei che i miei occhi fossero aperti per poter intravedere anche solo per un momento i mille fili incrociati che ci intersecano e si sovrappongono, quelli vicini e quelli lontani, per poter magari intravedere un disegno, un progetto che annulli l’angoscia del pensiero della morte e che mi faccia ridere di essa e della sua inutilità.

mercoledì 13 febbraio 2013

 

Jules e Jim sono due amici maschi. Uno è austriaco, l’altro francese. Si amano. Non in senso fisico, ma si amano. Vivono a Parigi nel quartiere di Montparnasse e passano tutto il loro tempo insieme, si allenano in palestra insieme, cenano quasi sempre insieme e la notte fanno baldoria, con le cocottes degli anni ‘30. Sono due scrittori e si confrontano, scambiandosi le loro impressioni su ciò che scrivono e su ciò che vorrebbero scrivere. E come tutti gli scrittori, sono innamorati dell’amore e dell’idealizzazione di esso. Non è semplice per uno scrittore innamorarsi, perché passi la tua vita tra idealizzazioni e livelli altissimi, tornare sulla terra significa sempre un po’ abbassare il tiro, adeguarsi. Anche loro la pensano così e spesso, con le loro partner femminili, si annoiano. Finché non incontrano Catherine, che fuma come un uomo e legge Shakespeare.

 
Catherine ha un sorriso enigmatico, che loro riconoscono subito appena lo vedono: era il sorriso di quella statua incontrata in Italia, in un sito archeologico, che tanto li aveva stregati e rapiti in una vacanza fatta insieme qualche anno prima. Catherine è bella, ha gli occhi grandi e tristi, persino il suo sorriso ha un velo di mestizia, ma la sua vitalità dirompente li trascina in un tourbillon di emozioni, lei regala loro cosi, come fosse niente, pezzi della sua carne e della sua mente, si svuota per arricchirli, è una dispensatrice di doni. Nella loro prima uscita lei si veste da uomo, ed è più bella che mai. I due amici sono avvinti da quella donna, sono due pupazzi tra le mani del destino, sono alla mercè di una femmina folle ma inevitabilmente adorabile. Loro tre, insieme, vanno a passeggiare nei boschi e a cercare ‘i sogni degli altri’. Lei ride raccogliendo scatole di fiammiferi vuoti, vecchie pagine di giornali, pezzi di stoffa appartenuti ai vestiti di qualcuno, ma Jules sa che, anche se ride di gusto, quella donna non potrà mai essere felice nella sua vita, ma la vuole sposare lo stesso o forse vuole sposarla proprio per quello.
 
 
Lei li porta al mare ma poi si sveglia al mattino insieme a loro e spalancando la finestra urla “Piove. Che voglia di Parigi, torniamo a Parigi” e i due la seguono, continuando ad amarsi tra loro, continuando ad amare lei. Lei si getta nella Senna solo perché sente Jules dire che la donna non è un essere in grado di comprendere appieno l’arte. Jim ha capito che nella vita si ama completamente solo per un momento, ma quel momento per Catherine ritorna sempre.
 
 
La vita va avanti e la follia di lei si insinua nella quotidianità, la guerra si insinua nelle loro vite e come nel più perfetto dei copioni, la felicità adolescenziale di una primavera lascia il posto alla cruda realtà dell’inverno che porta con se il germe della morte.
Loro si separeranno, ma poi si incontreranno ancora e passeranno tutta la vita insieme e torneranno a passeggiare lungo i corsi d’acqua e il cielo per loro tornerà ad essere tanto basso da toccarli. Non si separeranno mai, ne in questa ne nell’altra vita.

 
Questa è una storia semplice, amara ma piena di tutto il buono che ci può essere. Se nella vostra esistenza non avete avuto modo di vivere niente di simile, guardate lo stesso Jules et Jim, anzi, guardatelo ancora di più: perché se Truffaut è considerato un genio ci sarà senza dubbio un motivo. Io il mio motivo l’ho trovato: ero li con loro, ero Catherine, ero Jules ero Jim, e ho pianto con loro e sperato di essere amata e poi li ho lasciati entrambi e poi ho sposato Catherine e ne sono diventato l’amante, entrando in perfetta osmosi con la testa di ognuno dei tre. Con la Nouvelle Vague degli anni ’60 il cinema francese, influenzando poi quello mondiale, ha fatto un primo grande passo verso una modalità filmistica meno Hollywoodiana, detto in soldoni, un po’ meno ‘vi faccio sognare' un po’ più ‘vi faccio riflettere’. Il regista si trasforma in vero e proprio scrittore e inserisce nella sceneggiatura la propria poetica, offrendo non più un prodotto ma un’opera, sempre più intimistica, dando agli spettatori la propria visione del mondo. Truffaut è un genio perché insiste sulle impressioni, magari inserendo scene all’interno del film che apparentemente sembrano alogiche o comunque non funzionali allo svolgimento dell’intreccio, ma lui non vuole solo raccontare una storia, lui vuole raccontare come si sente all’interno di una storia, vuole far vedere agli altri come il proprio io si manifesta in rapporto a diverse situazioni. Ci riesce, e il messaggio più grande che filtra attraverso questo film è l’importanza della libertà interiore e al tempo stesso la piena presa di coscienza della natura distruttiva delle passioni. I problemi di coscienza sono quelli che più lo attraggono, e io lo amo per questo perché di problemi di coscienza ne ho un’intera collezione. Lasciatevi portare via da questo film intenso e sottile. Non ve ne pentirete mai e vivrete altre tre vite oltre alla vostra.

P.s. Per chi ama la lettura il titolo del libro da cui è tratta la storia è Jules et Jim, di Henri-Pierre Roché, 1953

domenica 3 febbraio 2013

Cosa ci impedirà di divorarci gli uni con gli altri?
Come riusciremo ad evitare l'effetto "Io sono Leggenda"?

L'altro giorno un mio amico mi ha raccontato di essere stato ad una convention relativa al progetto slow food e di come ha sentito che, per la prima volta nella storia dell'umanità, ci troviamo in un momento in cui la gente muore di fame non perchè ci sia poco, ma perchè sprechiamo troppo. L'economia globale produce cibo per 12 miliardi di persone, mentre noi siamo solo 7 miliardi, ma a mangiare decentemente sono solo circa due o tre miliardi e tutti gli altri o muoiono di fame o mangiano malissimo (clicca qui).
Di questo passo e sfruttando le risorse naturali in maniera sconsiderata, avendo come fine il 'profitto di pochi' e non il 'riempire la pancia di tutti', si arriverà inevitabilmente, e nel giro di pochi anni, ad uno scenario di carestia mondiale.
Ed è li che cominceremo a mangiarci gli uni con gli altri, non come purtroppo a volte gia facciamo adesso, bensì in senso letterale.


Allora mi sono chiesta: cosa mi impedirà di sbranare il mio vicino di casa?
Suona apocalittico, me ne rendo conto,  ma ... se dovesse accadere, grazie a cosa riuscirò a conservare la mia umanità?
Cosa è che fa di noi... noi? Le nostre scelte? Il nostro DNA? Siamo lombrosianamente cattivi dalla nascita o siamo influenzati dall'ambiente in cui viviamo, dalle persone che frequentiamo, dall'educazione che abbiamo ricevuto?
Come al solito credo che la risposta sia nel mezzo. Siamo istinto, siamo animali, ma siamo anche ciò di cui ci nutriamo.

Il mio blog non pretende di essere una chiccheria per intenditori, o un autocompiaciuto sfoggio di bravura. Non sono un critico e spesso mi appassiono a cose che la gente snobba per eccesso di intellettualismo; questo angolino serve solo a ricordare a me e a chi mi vuole leggere, che l'anima, lo spirito, la coscienza, insomma, chiamatela come volete, la parte interiore di noi stessi non organicamente deperibile (e non parlo dell'anima immortale intesa in senso classico ma magari anche solo del ricordo che rimane impresso di noi negli altri dopo la morte o ancor meglio del ricordo che le nostre azioni lasciano nella mente di Dio, qualunque sia il Dio in cui crediate o meno) ecco, questa parte va nutrita, coltivata, protetta e non necessariamente da qualunquistici buoni sentimenti, ma bensi dall'arte, in una qualsiasi delle sue forme, perchè questa è l'unica parte che può permetterci di evitare il tracollo fisico, le carestie, la follia generale.
La definizione di arte è causa di contoversie da millenni, lo so.
In senso ampio indica "ogni capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati".
A me piace di più la definizione di un pazzo che un giorno, tra un dipinto e l'altro, si tagliò un orecchio:
“A tutt’oggi, non ho trovato miglior definizione dell’arte di questa, l’arte è l’uomo aggiunto alla natura – natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera e interpreta.”


L'arte non è sempre piacevole, a volte esprime angosce e paure, a volte è spaventosa, terrificante, ma è in ogni caso liberatoria ed è un elemento elevato alla potenza perchè da qualcosa sia all'emittente che al destinatario. Ma che cos'è in sostanza e cosa c'entra con le carestie?
Secondo me l'arte è un libro, un film, una passeggiata con un amico, un giorno lontano dalla propria città, una notte trascorsa abbracciati a qualcuno che non avresti mai pensato avrebbe potuto mancarti cosi intensamente e invece sorpresa... Tutto è arte, e c'è bisogno di questo, non solo di lavoro, vegetazione su programmi Mediaset e lobotomizzazione in discoteca.
Ieri sera guardavo un film di Matthew Vaughn, The Pusher, che esordisce con una frase semplice ma vera:
"Diamo alla gente quello che vuole: divertimento oggi, rincoglionimento domani". Eh già.



E invece c'è bisogno di silenzi e di bei rumori, c'è bisogno di ricordare che i colori veri non sono quelli che vediamo e che sotto la patina del grigio-smog si nasconde un verde originario più brillante, che dentro all'impoverimento e alla tristezza, si annida un grande bisogno di amare e di essere amati, protetti, considerati, ascoltati.



Io non posso cambiare il cuore marcio della società in cui vivo e a volte neanche il mio. Però amo, e penso. Amo qualcuno in maniera più intensa, qualcuno di meno, qualcuno in maniera malata. Spesso penso inutilmente e mi preoccupo per sciocchezze, altre volte invece non lo faccio abbastanza.
Ma in entrambi i casi, non ho nessuna intenzione di smettere. Non voglio smettere di amare, ne di pensare, ne tantomeno di cercare i colori veri, trasparenti, palpitanti, che si nascondono dentro alle  persone, che sono umane, come me, e che non vorrei dover divorare domani, sospinta dallo stomaco vuoto non solo di cibo, ma della consapevolezza di essere molto di più che semplici animali.