lunedì 30 luglio 2012

Vivere insieme. Si può decidere di andare a vivere con un'amico/a, col fidanzato, con un genitore che si separa e tu devi scegliere con chi dei due andare, o restare.

Quando ero più piccola facevo spesso un sogno ricorrente: sognavo di vivere in un collegio.  Nel mondo onirico salutavo i miei e con le valigie in mano,  partivo per una scuola all'estero. Quasi sempre andavo in Inghilterra, e nei miei sogni la scuola era nel centro della città ma si sviluppava intorno ad un giardino. Era il tipico palazzone vittoriano, di colore giallo oro. Spesso pioveva e io guardavo fuori dalla finestra l'asfalto bagnato e gli alberi verdi, ed ero allegra e serena. Mi ricordo persino come erano arredate le stanze: sobrie con i muri grigio perla, le tende bordeaux, i mobili marrone scuro,  stanze forse un po' troppo eleganti per essere quelle di un dormitorio scolastico. Mi ricordo che l'aria dentro alla scuola era carica di promesse e io passeggiavo per i corridoi incontrando gli sguardi dei miei compagni, con la volontà di scoprire la vita e le storie che si nascondevano dietro ad ognuno di essi. Potevo avere all'incirca dodici anni. Forse è normale sognare di vivere con gente della tua età quando sei figlio unico.
E poi ti svegli il giorno dopo e...  hai trent'anni.
Entri in edicola, e il nuovo manga mensile di Ayu Watanabe ti chiama dagli scaffali col titolo "Living Together", vivere insieme, e tu scopri che é la storia di Aoi, la quale decide di andare a vivere da sola, vicino alla sua nuova scuola. Qui si scontra con un affascinante studente, Shusei Kugayama, che ha spezzato il cuore della sua migliore amica. Come nel più classico dei copioni dall'odio per il giovane, eroe byronico a tutti gli effetti, nascerà un rapporto di interesse morboso, alimentato dal fatto che Kugayama si trasferirà nell'appartamento accanto a quello di Aoi. Ah dimenticavo, lui è un principe.
Il fumetto è decisamente erotico, soft, ma erotico. E sicuramente nei miei sogni questa sfumatura non mancava.


Conseguenze: manga comprato e divorato. Perchè una volta i sogni li facevo così, spontaneamente. Invece oggi, talvolta, mi succede di doverli andare a comprare.

martedì 24 luglio 2012

Qual'è la differenza tra essere e suscitare?
Ci sono cose che sono, semplicemente esistono. Una mela, una penna, una faccia.
E poi ci sono cose che suscitano, che provocano reazioni, turbamenti, riflessioni.
Oggi ho visto un film, L'assassinio di Jesse James da parte del codardo Robert Ford, titolo lunghissimo e anche la pellicola non scherza con i suoi 160 minuti secchi ed è stato questo film a farmi pensare alla differenza tra il semplice essere nella sua immanenza e l'essere in divenire. Esagerata, penserete. No, non è un'esagerazione: dentro a questo film c'è tutto. La vita, la morte, la vergogna, la paura, la bellezza, la spregevolezza, la mediocrità. Questo film è stato fatto con l'anima e i risultati si vedono.

"Aveva un problema agli occhi che lo portava spesso a stringerli quando guardava, come se il creato fosse una visione troppo intensa per lui..."

Quello che poteva essere il solito barbosissimo excursus romantico sulla vita di un ladro per bene nell'America di fine ottocento, un po' spietato ma gentiluomo -in tal caso sarebbe stato un filmetto, nient'altro- si trasforma in una storia originale e ben strutturata -un film che provoca e alla fine ti lascia un po' diverso rispetto a come eri prima di guardarlo, che bello- che si concentra sugli stati d'animo dei protagonisti e li comunica, prima e trasferisce poi sullo spettatore con leggerezza e facilità, compito arduo in tempi di inutili ridondanze-neo-smielodiche finalizzate allo sbanco del botteghino.
Tra l'altro l'interpretazione è valsa a Brad una bella coppetta Volpi come miglior attore nel 2007. E il minore di casa Affley, seppur meno fascinoso di Ben, si rivela straordinariamente capace e preparato nel mostrare al mondo come si interpreti la figura del codardo.
Entrambi ben lontani dall'essere due manichini.


E poi con tutti questi paesaggi tra Missouri e Kansas, tanto cielo, tanti cavalli, nuovole silenzi e diligenze, pistole e vestitoni ampi a fiori per le fanciulle, non so perchè, ma io ci vado a nozze.
Tutta colpa delle reminescenze delle vite passate. Esagerata, dite?
Può darsi...
Intanto provate a guardare con attenzione la scena in cui dal buio pesto arriva il treno da derubare e illumina tutta la boscaglia circostante come se fosse giorno, la figura del bandito Jess che si staglia come un'ombra nera contro la luce del treno, in piedi sui tronchi di legno posizionati sulle rotaie per arrestarne il corso. Sarò anche esagerata, ma anche voi penserete di essere stati, in un tempo lontano, li da qualche parte, accucciati nel bosco, insieme agli altri banditi, ad aspettare il treno.
Questa è la differenza tra essere e suscitare, tra il fare le cose mettendoci l'anima dentro o soltanto mettendoci sopra le mani.

domenica 15 luglio 2012


Oggi vorrei essere a Tokio, dentro ad una caffetteria della catena Denny’s. Stare li, una formica dentro al più grande formichiere del mondo, un puntino che in silenzio beve un caffè guardando gli altri, fuori il cielo che diventa scuro e i riflessi di mille neon che, filtrati dai vetri, si posano con leggerezza sui tavoli, sulla mia faccia, per accarezzarmi, per regalarmi nuove prospettive, nuovi occhi per guardare il mondo fuori e dentro me. Invece sono al lavoro, nel mio centro commerciale. Devo ammettere che a volte l’atmosfera qui è surreale tanto quanto nei racconti di Murakami.
Ed è proprio un suo libro a venirmi in aiuto. La letteratura al mio servizio per teletrasportarmi ovunque io voglia.
Il titolo è After Dark.

“Gettiamo un’occhiata intorno, poi fermiamo lo sguardo su una ragazza seduta vicino alla finestra. Perché proprio lei?  Perché non un’altra? Non lo sappiamo. Eppure per qualche motivo la nostra attenzione è attirata da quella ragazza … Così, è una cosa che ci viene spontanea. Seduta a un tavolo per quattro persone, sta leggendo un libro. Indossa una felpa grigia col cappuccio, dei jeans, e ai piedi ha delle scarpe da ginnastica gialle scolorite da innumerevoli lavaggi. Ha appeso allo schienale della sedia accanto alla sua un giubbotto, piuttosto malandato, anche quello, decorato con il logo di un’università. Quanto all’età probabilmente è una studentessa del primo anno. Capelli corti e neri, lisci, quasi niente trucco e nemmeno un gioiello. Un viso piccolo e magro. Occhiali dalla montatura nera. Ogni tanto fra le sopracciglia le si forma una ruga, segno che sta riflettendo”.

La storia, o meglio le storie che si intrecciano in questo romanzo hanno come sfondo un love hotel, in alcune stanze al buio, la metropoli di notte e una caffetteria, per l’appunto, nella Tokio contemporanea.
Il sonno, l’assenza di esso e lo stato semicomatoso sono i temi portanti del libro. Lo stato di incoscienza in cui chiunque, anche solo dormendo, si è trovato nella vita, assume un significato lontano dalle banalità e degli stereotipi. Leggendo questo libro potreste arrivare a capire non solo che spesso chi pensa di essere sveglio in realtà è molto lontano dall’esserlo, ma anche che molte volte chi crede di aver capito tutto è quanto mai lontano dalla verità. Ma soprattutto potreste capire che non sempre c’è una spiegazione a tutto ciò che accade: se è vero che tutto accade per un motivo, bisognerebbe ricordarsi che i motivi stessi talvolta sono solo ragioni di nascita, casualità, combinazioni di possibilità in divenire e per questo non seguono schemi e logiche precise. Uscire dal labirinto ossessivo dei perché forse potrebbe aiutare le teste complicate a dare un po’ più di importanza al silenzio e ad ascoltare i propri di motivi, giusti o sbagliati che siano.
La forza di questo racconto, abbastanza corto rispetto alla media degli scritti murakamiani (sono solo 178 pagine) è concentrata nella potenza del sogno e come un sogno va letto, senza volontà di interpretare in maniera precisa le storie che si intrecciano e si sovrappongono senza quasi sfiorarsi, ma abbandonandosi ad esso e al piacere sottile che solo le cose evanescenti, quelle cose che non riusciamo completamente ad afferrare, sanno provocare.

Ecco alcuni estratti dal romanzo, per chi avesse voglia di sbirciare tra le pagine prima di andare a comprare il libro.

·         Estratto numero uno, dal capitolo settimo

“L’interno di un piccolo supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. I cartoni di latte scremato Takanashi sono al banco frigo. Fischiettando la melodia di Five Spot After Dark Takahashi sta cercando il latte. Non ha con se né borse né pacchi. Protende una mano e prende un cartone di latte Takanashi, poi si accorge che è scremato e storce il viso. Per lui, si tratta di una questione che ha uno stretto, inevitabile rapporto con la morale. Il problema non è soltanto la quantità di grasso contenuta nel latte. Posa quello scremato al suo posto e prende quello intero che si trova accanto. Controlla la data di scadenza e mette il cartone nel cestino. Poi si sposta al reparto della frutta e prende in mano una mela. La studia da tutte le parti sotto la luce. Non gli piace. La rimette a posto e ne piglia un’altra, la ispeziona allo stesso modo. Ripete l’operazione diverse volte finché non ne trova una soddisfacente … anche se non è del tutto convinto. Chissà perché, sembra che per lui il latte e le mele siano alimenti carichi di un significato speciale. Si dirige verso la cassa, ma passando vicino a un pacco di plastica nota che contiene delle confezioni di salame di pesce, e ne prende una. Ne controlla la data di scadenza stampata in un angolo, poi la mette nel cestino. Alla cassa paga infila il resto a casaccio in una tasca dei pantaloni ed esce.
Si siede sul guardrail di fronte al supermercato e con il bordo della camicia strofina bene la mela. La temperatura deve essersi abbassata, perché il suo fiato è leggermente bianco. Tracanna tutto il latte quasi in un sorso solo, poi addenta la mela. Mastica scrupolosamente un boccone dopo l’altro riflettendo su chissà cosa, e di conseguenza per mangiarla impiega un sacco di tempo. Quando finisce si strofina la bocca con un fazzoletto stazzonato, infila il torsolo e il catone del latte nella busta di plastica, e va a buttarla nel cestino che si trova davanti al negozio. Il salame di pesce lo mette nella tasca del giaccone. Guarda l’ora sul suo orologio arancione, poi alza le braccia e si stira più che può”.


·         Estratto numero due, anche lui dal capitolo settimo

“Tutto solo l’uomo lavora di fronte allo schermo del computer. È il cliente che è stato ripreso dalla videocamera dell’Alphaville. Quello che indossava un’impermeabile grigio chiaro e ha ritirato la chiave della stanza 404. Sta scrivendo sulla tastiera senza nemmeno guardarla. A una velocità impressionante. Eppure le sue dita riescono a stento a seguire la rapidità del suo pensiero. Tiene le labbra serrate. Per tutto il tempo resta assolutamente impassibile. Il suo viso non mostra né soddisfazione né contrarietà riguardo all’andamento del lavoro. Ha arrotolato le maniche della camicia fino al gomito, sbottonato il colletto, allentato la cravatta. Su un foglio che tiene accanto a sé, quando ne ha bisogno annota dei numeri e dei segni a matita. Una lunga matita color argento con la gomma da cancellare a un’estremità. C’è impresso sopra il nome della ditta, VERITECH. Altre sei matite dello stesso colore sono allineate con ordine su un apposito vassoi etto. Tutte lunghe uguali. Tanto appuntite che più di così non si potrebbe.
La stanza è grande. Tutti i colleghi se ne sono andati: nell’ufficio è rimasto solo lui. Da un piccolo stereo cd poggiato sulla scrivania esce il suono né troppo alto né troppo basso di una sonata per pianoforte di Bach. Nell’esecuzione di Ivo Pogorelić . Suite inglese. La stanza è quasi tutta buia, solo il posto dove si trova l’uomo è illuminata da una lampada al neon sul soffitto. È una scena che Edward Hopper avrebbe potuto dipingere col titolo «Solitudine». All’uomo però quella situazione non mette particolare tristezza. Anzi, semmai è contento quando non ha gente intorno. Può concentrarsi senza che nessuno lo disturbi e portare avanti il lavoro ascoltando la musica che gli piace. Un lavoro che gli va a genio. Perché quando vi si concentra, perlomeno in quei momenti, non ha bisogno di arrovellarsi sui problemi reali. Perché a patto di non risparmiare né tempo né fatica, può risolvere ogni dubbio logico o analitico. Mentre ascolta a un livello semiconscio la musica, osserva lo schermo del computer e muove le dita a una velocità che non ha nulla da invidiare a quella di Pogorelić. Non fa gesti inutili. Nella stanza esistono soltanto l’elaborata musica del diciottesimo secolo, lui e il problema tecnico che gli è stato sottoposto”.


·         Estratto numero tre dal capitolo ottavo, esageratamente bello

“Il nostro punto di osservazione torna alla stanza di Asai Eri. A una prima occhiata non sembrano essersi verificati mutamenti. È passato un po’ di tempo e quindi l’oscurità si è fatta più profonda, il silenzio più pesante, nient’altro.
… anzi no. Non è vero. Qualcosa è cambiato. In questa stanza c’è una differenza fondamentale rispetto a prima.
È una differenza che salta subito agli occhi. Nel letto non c’è nessuno. Non si vede più Asai Eri. A giudicare dal fatto che le lenzuola non sono spiegazzate, si direbbe che durante la nostra assenza lei si sia svegliata, si sia alzata e sia andata via. Il letto è stato rassettato ed è in perfetto ordine. Non c’è traccia del fatto che fino a poco fa vi dormiva Eri. È molto strano. Cosa sarà mai successo?
Il televisore è rimasto acceso. La scena è la stessa, sullo schermo si vede la stanza di prima. Una vasta camera vuota senza mobili. Anonime lampade al neon, pavimento di linoleum. Ora però l’immagine è del tutto stabile, c’è da non crederci. Non si sente più il brusio elettrico, i contorni delle figure sono nitidi, la foschia è sparita. Il cavo è stato collegato da qualche parte  - chissà dove – in modo che l’immagine non tremi. Lo schermo illuminato del televisore rischiara la stanza di Eri come la luna piena bagna di luce una prateria deserta. Tutti gli oggetti, nessuno escluso, sono in maggiore o minor misura esposti al magnetismo emesso dal televisore.
Nell’immagine sullo schermo, l’uomo senza volto è sempre seduto sulla sedia di prima. Indossa sempre un vestito marrone, ai piedi ha delle scarpe di cuoio nere, è sporco di polvere bianca, sulla faccia ha una maschera lucida e aderente. Anche la sua posizione non è diversa da quella che abbiamo visto poco fa. Tiene la schiena eretta, le mani posate sulle ginocchia, e sta leggermente chino in avanti a osservare qualcosa. I suoi occhi sono nascosti dietro la maschera. Dal suo atteggiamento però si capisce che li tiene fissi su un punto. Ma cosa può mai guardare con tanto fervore? Per rispondere alla domanda che formuliamo mentalmente, la telecamera si sposta seguendo il suo sguardo. Arriva fino a un letto. Un semplice letto di legno a una piazza … dove dorme Asai Eri”.

giovedì 12 luglio 2012

Ci sono cose frivole, che semplicemente ti piacciono.
Oggi è uno di quei giorni in cui ho bisogno di farne un elenco, per ricordarmi che la leggerezza esiste, ed è bellissima, e che spesso godere del bello e basta non è solo una necessità, ma un dovere verso noi stessi per combattere il grigiore e il peso dei giorni non semplici.

Tanto per cominciare...
Mi piacciono i giornali rosa, Vogue, Elle, Cosmopolitan... tutti.


Poi mi piacciono le ragazze col rossetto rosso e le camicette leggere blu a pois


Mi piacciono le gambe lunghe e le camice da uomo portate su uno short in denim ricamato



















le modelle more di Victoria's Secret















ma anche le modelle bionde col trucco fluo, le mèches rosa e i vestitini azzurri

















ADORO cosmetici e profumi, le scatole, i colori, gli odori, i miracolosi effetti... E in questo frangente devo ammettere di essere un'esperta.

Tra l'altro mi piace lo smoky eyes blu metallico, perfetto anche di giorno se la tua anima è un po' dark


e i capelli blu di Katy Perry, peccato che nessun parrucchiere voglia mai farmeli...




Mi intriga il fascino assoluto e inimitabile delle donne orientali, ma sopratutto i loro capelli neri, lunghi, lisci come seta
















Mi piacciono le cene in riva al mare







ma impazzisco letteralmente per le pause pranzo in bento style


E per finire, ebbene si, mi piacciono i bravi ragazzi















ma soprattutto, come sempre, quelli cattivi :-)










martedì 10 luglio 2012


"Ma il giorno che ci apersero i cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende, che potemmo finalmente inebriarci del loro destino di fiori, oh, fu quello il tempo in cui tutte le nostre inquietudini segrete disparvero, perché eravamo vicine a Dio, e la nostra sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata fiore essa stessa."



Chissà da dove arrivano le domande. Forse dal cielo, carico di stelle, fuori dalla mia finestra, forse dal buio, di sicuro da lontano. Una domanda, oggi, mi si è insinuata nella caverna del cuore, e poi ha preso forma: perché la poesia nasce spesso dal dolore, dalle permanenze forzate, dalla parte oscura delle cose di cui non comprendiamo la natura? Perché l’arte vorrebbe essere la risposta alle domande inevitabili? Perché il senso che cerchiamo non può essere biologico?
Ci ho pensato leggendo Alda Merini. Quando la Merini scrive, follia e lucidità si alternano nella narrazione prendendosi gioco delle categorie di spazio e tempo; lampi colorati e schegge di pensiero fuggono dal suo cervello, prima ancora di essere state pensate, si fissano sulla carta come custodi di una verità assoluta e per questo incomprensibile.
Dal manicomio che l' ha ospitata per decenni, la Merini ha visto il male racchiuso dentro ad un bozzolo di seta oscura, crescere e trasformarsi in una farfalla nera. Lei, minuscola e forte, ha trovato la forza di scuotersi dal torpore malefico, di salire sul suo corpo cavalcandola, dirigendone  il percorso, per salire in alto, fino al sole più intenso che scioglie il corpo scuro dell'animale, fino ad arrivare in un regno di quiete dove i pazzi hanno ragione d'essere e non necessariamente di guarire.
Il suo corpo, incatenato, nutrito con puntualità e precisione dai suoi aguzzini.
Il suo spirito in viaggio verso la luce.
Forse è vero che Qualcuno (nei suoi insondabili disegni) decide di seminare proprio nel cuore dei “diversi” un tipo di grazia che i sani comuni mortali, non potranno mai partorire.


domenica 8 luglio 2012



Sabato sera, finisco di lavorare alle 22.
Dopo un giorno passato in mezzo a bambini piagnoni intrappolati nei carrelli, mamme esigenti e stressate che fanno domande a terremoto sugli orologi più in voga… No, non credo di aver voglia di tuffarmi nella movida notturna.
La tua migliore amica lo sa, ti viene a prendere al lavoro, ti porta a casa sua e ti fa trovare bistecche impanate, insalata, birra e … tre film, scegline uno.
Prima di parlare dei film, dovremmo parlare un attimo di Fede ma, parlare di Fede in poche righe non è così facile. Non si può riassumere. Forse esistono solo due parole in grado di racchiudere lo spirito di Fede, una è inquietudine, l’altra è sorella. Non sono esaustive, ma tanto su Fede ci torniamo.
Magari i tre titoli dei film vi diranno qualcosa di più su di lei


1.       Quel che resta del giorno di James Ivory

2.       Melancholia di Lars von Trier

3.       Love Story di Arthur Hiller


Questa è Fede.
Dopo attenta considerazione, scegliamo Melancholia, con l’approvazione del gatto.













Le prime immagini sono incredibili, Wagner in sottofondo e Kirsten Dunst che tenta di liberarsi da un vestito da sposa che si trasforma in dei lacci che la tengono avvinghiata alla terra. Poi comincia la storia, divisa in due parti: prima parte Justine, seconda parte Claire.
Justine e Claire sono sorelle, un po’ come me e Fede, solo che loro sono legate dal sangue, noi invece siamo sorelle per scelta consenziente. Justine si è appena sposata, siamo ancora alla festa per il suo matrimonio, in uno splendido castello svedese. Tutto è perfetto, vestiti, sorrisi, location  da sogno e cibi raffinati, ma le idiosincrasie degli invitati si infilano presto sotto la pelle della sposa che fugge al chiaro di luna per restare un po’ sola. É  qui che si accorge che un pianeta di nome Melancholia, si sta avvicinando alla terra, insieme ai presagi di un futuro tetro. Il magnetismo del pianeta esercita una forza su di lei che compie atti insensati e allontana il marito da sé, il giorno stesso della loro unione.
Nella seconda parte del film Claire si prende cura di sua sorella, ormai affetta da depressione dopo il fallimento matrimoniale, mentre il pianeta si avvicina, inesorabilmente, alla terra.

Mentre guardavamo il film, Benny ci sorvegliava dall’alto.














Non vi svelo il finale, il film è molto lento, ma è un piacere per gli occhi. Per chi volesse saperne di più cliccate sul link del film.

La cosa più bella di questo sabato sera è stato osservare come il gatto se ne freghi della malinconia e pensi solo a mangiare i Fonzie dal tuo sacchetto, a farti un po’ di fusa, e ad addormentarsi addosso alla sua padroncina.



Ti stimo tanto, ma c’è da pensarci, caro Lars.



sabato 7 luglio 2012




La mattina quando mi sveglio, non posso fare a meno della mia tazzina di caffè. Con gli occhi ancora chiusi carico la moka e accendo il gas. Non posso fare nient’altro prima di aver bevuto il caffè e mangiato un dolce: merendine, biscotti, pane tostato burro e marmellata (quando non sono di fretta), va bene tutto, purché sia zuccherato.
La colazione è un momento magico, mi riconnette alla vita. Mi piace farla da sola a casa, con la tv spenta e le finestre spalancate. Il massimo è quando ho il tempo di farmi una tazza di tè. Poi mi faccio lo stesso il caffè, per chiudere la colazione, ma prima comincio con il tè.
Orientale, evocativo, fa bene al cuore, d’inverno ti scalda, d’estate lo prepari prima, poi lo zuccheri, ci metti il ghiaccio dentro e ti disseta come nient’altro. Per bere il tè, devi prenderti un attimo, devi uscire dalla frenesia del quotidiano. Il tè è un atto di indipendenza e individualismo. È un atto di ribellione e di protesta, non siamo solo "produci consuma muori" siamo anche "adesso mi prendo un momento di puro ozio e me lo godo fino in fondo".  Mentre bevi puoi pensare.
Quando vado al supermercato mi perdo davanti alle confezioni di tè e tisane, ci sono troppi colori, troppi gusti, vorrei provarli tutti. Eppure tutto questo caleidoscopio di bustine non regge il confronto col tè sciolto, quello che si compra nelle erboristerie, nei negozi specializzati o nelle sale da tè.
C’è solo una cosa migliore del tè in foglie. Il tè in foglie acquistato direttamente nei paesi orientali. A questo proposito, sono molto fortunata: ho un caro amico che viaggia parecchio e che mi ha appena portato da Istanbul del tè fatto di fiori secchi e foglioline vere, così bello che quasi mi dispiace usarlo. Profuma di zafferano, limone, ciliegie e roselline di bosco e quando lo annuso e chiudo gli occhi mi sembra di riuscire a vedere il mercato in cui è stato comprato, di sentirne i rumori. Verso l’acqua calda sulle foglie e i fiorellini si aprono, come se tornassero alla vita, colorati e pieni.

Il mio amico ci è riuscito, gli avevo chiesto di portarmi un pezzo di Istanbul e lui mi ha portato un piccolo mezzo per teletrasportarmi laggiù, ogni volta che bevo una tazza di questo profumato pout-pourri posso viaggiare.
A volte dietro ad un gesto semplice si nascondono grandi propositi ambiziosi, come quello di regalare un sogno.
È giusto compiere questi piccoli gesti ed è giusto capirli. C’è un grande bisogno di condividere per ricordarci che siamo umani e per non pentirci di non avere fatto ciò che volevamo fare, finché ce n’era il tempo.

giovedì 5 luglio 2012

L'idea di questo blog nasce... dall'ansia.
Chi non è mai stato ansioso? Si può essere ansiosi per milioni di motivi. La mia ansia di oggi è più...fame. Fame di cibi  che non siano i prodotti pronti e preconfezionati che qualcun'altro ha pensato per me.
Il sogno aiuta. É democratico, ma non populista. Cheap and smart. Tutti possono sognare, e senza  accontentarsi, perchè ogni abitante della terra, nel buio del proprio io, può sognare in grande, in modo assurdo o silenzioso. Poche cose sono più intime e più vere.
Il lavoro che faccio mi toglie molto tempo. Diventa difficile prendersi un po' di tempo per sognare ma se non vogliamo che "il nulla si porti via tutto" , fagocitando pezzi di fantasia, bisogna proprio impegnarsi e prenderselo quel tempo, le mani dietro la testa, le gambe comodamente incrociate sopra a qualche cuscino per riattivare la circolazione (dopo tante ore in piedi...) e ... abbandonarsi al sogno. Senza vergogna. Senza limiti.

Per esempio uno dei miei sogni è andare a Tokio. Come potrebbe essere altrimenti? Sono nata negli anni 80! Per questo rubo pezzi di sogni che arrivano da li. Ecco l'ultimo




















My Little Monster (Tonari no Kaibutsu-kun となりの怪物くん)  è l'ultimo grande successo di Robico: pubblicato in Italia da GP Publishing, è un manga ambientato in una scuola giapponese dei nostri giorni, i protagonisti sono Shizuku Mizutani e Haru Yoshida, secchiona, glaciale e bellissima lei, indisciplinato, ribelle e misterioso lui. Lui tenta di allevare un pollo all'interno della scuola, perchè gli si è affezionato. Lei passa le sue giornate sui libri, perchè sogna una brillante carriera e la totale indipendenza economica.
Non vorrei togliere il piacere della scoperta a nessuno. Per chi volesse un po' sognare e tornare al liceo (eccolo, è scappato uno dei miei sogni) bene, che si metta le pantofole e scenda giù in edicola. Con un po' di fortuna troverete ancora il primo numero.
E poi, anche non piacesse il fumetto, quell'odore di carta appena stampata e le pagine intonse sono sempre una promessa, no?
Godetevi il momento.






mercoledì 4 luglio 2012

Il sogno...
Tanto per cominciare.
Se è vero che siamo un eterno anelito, se è vero che il motore del mondo è la mancanza, il desiderio, che ci spinge a muoverci verso ciò che non abbiamo, allora...
Mi fermo, respiro a fondo e... che il sogno abbia inizio.