Stavo andando a lavorare, come ogni giorno.
Gli occhi attenti, concentrati sulla guida, il corpo
rilassato, una mano sul volante, l’altra sul cambio. Sempre la stessa strada,
tutti i giorni. La radio trasmette un pezzo rock anni '60 ("Get your motor
running, head out on the highway”) comincio a tamburellare con le dita sul
volante al ritmo del brano. Giro la solita curva, supero il parco e premo
l’acceleratore. Di fronte a me il paesaggio si allarga e vedo chiaramente, come
ogni giorno, la catena montuosa in tutta la sua bellezza: il centro commerciale
in cui lavoro è appena fuori città, ma non c’è nulla intorno, costruzioni o
case, niente di niente e lo sguardo riesce ad abbracciare una fetta di
orizzonte davvero grande. È come se mi trovassi di fronte ad un gigantesco quadro, un
affresco apparso all’improvviso sotto i miei occhi che ormai prendevano per
scontato quel tragitto e invece oggi… un’illuminazione, come se fossi entrata
in un museo interattivo di arte moderna, come se l’immagine di fronte a me
fosse immobile, non vera, fumettata, una foto artistica gigantesca, incastrata
tra me e il fondo della strada: le montagne.
Tutte, completamente bianche di neve. Le diverse cime come
picchi dell’elettrocardiogramma degli dei, tutto quel latte, stagliato contro
l’azzurro imbarazzante del cielo. E in mezzo alla scena una luna, bianca anche
lei, tonda, perfettamente al centro, con i suoi crateri e le sue storie di
buio, così solida così lontana dall’opalescenza notturna, ferma e immobile,
regina sovrana di quell’immagine che, ormai sono sicura, è di cartone. Non
riesco a smettere di guardare, percepisco lo spazio e tutta l’aria fredda che
c’è dentro e vorrei fermare la macchina, fare delle foto. Non posso farlo senza
evitare un incidente e quindi scatto una
foto mentale. Mi viene voglia di ringraziare dio per il regalo che mi
sta facendo, era da tanto che non vedevo qualcosa di tanto bello. Come se la luna fosse fatta della stessa sostanza di cui sono
fatte le montagne, come se un pezzo di montagna si fosse staccato per salire
fino al cielo. Silenzio e azzurro, nemmeno una nuvola, e tutto lo stupore delle
cose che non ho ancora visto si impadronisce di me. Questo senso di nuovo, di sconosciuto,
mi cattura e mi allontana dalla realtà.
Ho pochi secondi di tempo per decidere: alla rotonda gira a
sinistra e sei al lavoro.
Oppure prosegui dritto e vai verso le montagne.
Pochi secondi.
In pochi secondi penso al mio contratto di lavoro e al fatto che mi è
stato confermato a tempo indeterminato, una vera fortuna in questi folli tempi
di crisi. Penso al mio viso che si sforza di sorridere ai clienti che, preoccupatissimi, mi
chiedono consigli sull’acquisto di un nuovo orologio (non si preoccupi, lo rassicuro, uscirà di qui con l'orologio giusto). Penso a tutte le battute
sarcastiche che mi sono venute in mente e che non ho mai fatto, di fronte ai ragionamenti assurdi dei miei
capi, penso a quante volte ho offeso la mia intelligenza facendo FINTA, facendo
vincere la diplomazia e la gentilezza in nome del quieto vivere, prendendo ogni
volta a pugnalate nella schiena la logica e la ragione. Penso a tutti gli anni
passati a studiare di giorno e a lavorare di notte sognando di cambiare il
sistema, sognando di far conoscere gli intrighi dostoevskiani e la poesia di
Proust ai miei alunni, sognando di far conoscere loro Irvine Welsh e Coppola e
Kusturica nella speranza che magari non avrebbero abbandonato del tutto la
dipendenza dal televisore ma almeno quella da Alessia Marcuzzi e da Maria De Filippi, da discorsi stereotipati pensati per loro da qualcun altro (
attenzione non i beneamati discorsi da bar sport, che Benni li abbia in gloria,
ma i discorsi che sono soltanto rumore, volgare rumore di sacchetti vuoti, di
luoghi comuni scaldati al microonde, serviti ogni volta come pietanze diverse,
in realtà sempre uguali, masticati da bocche stanche e rassegnate).
Penso a tutto questo e in pochi secondi le immagini di una
vita mi passano davanti agli occhi, come per incanto, come sotto l’influsso
magico di quella luna bianca e diurna, sorpresa in flagrante nell’atto di
copulare con le cime di quei monti solitari eppure allegri.
Mi sento come Steve McQueen, pronta per la grande fuga, ho
solo i capelli più lunghi e le dita sul
volante smaltate di rosa (capelli che ora, come per magia infusa, luccicano al
sole, brillano da dentro come la luce interiore che sprigiona Naruto quando si
trasforma). Il cuore che batte nella cassa toracica è quello di Billy
e Wyatt, non ci sono dubbi. Mi mordo le labbra, non potendo contenere la voglia di fuggire, l’ansia buona di mangiare
il mondo che sto immaginando dietro a
quel dosso.
“Non ha senso scappare dal dovere in un giorno come questo
soltanto perché hai visto la luna di giorno” mi suggerisce saggiamente e tutto d'un fiato la voce
della mia coscienza, la mia severissima gemella di nome Rottenmeier.
La guardo dall’esterno, i suoi occhialetti inforcati, i suoi
capelli raccolti e mai fuori posto, il suo colletto della camicia perfettamente
stirato e rigido e… mi viene da ridere.
“Non mi freghi stavolta, Rottenmeier”. Premo l’acceleratore
e vado dritta, lasciando la curva per il centro commerciale alle mie spalle. La
vedo allontanarsi nello specchietto, la Rotten. Mi guarda sconcertata ma, con i suoi occhi tristi, diventa un
puntino sempre più lontano.
E mi dirigo, senza alcun ripensamento, strafatta di gioia, verso
le montagne bianche, verso quella strana,
magnifica luna bianca.