Stavamo festeggiando nel
quartiere Vanchiglia. Era una notte bianca, ma Dostoevski non c’era, c’erano le
strade chiuse al traffico delle automobili e tutti i negozi all’esterno avevano
improvvisato dei piccoli dehors dove potevi bere, mangiare, tirare le
freccette, farti fare un orlo al pantalone o magari farti predire il
futuro. Nelle stradine si stava
riversando un fiume di gente di ogni tipo, giovani vecchi e bambini mescolati
insieme, ma la persone che ti colpivano di più erano quelle che non uscivano
mai, le riconoscevi dal loro guardarsi intorno con occhi meravigliati un po’
come quando cammini a Venezia e vedi l’acqua al posto delle strade e non ci
credi e ti aspetti di vedere il Don Giovanni passare su una gondola. Anche
Torino quella sera sembrava una città diversa, una piccola metropoli
anteguerra, senza le macchine, una città strana fatta di voci, musica e
bancarelle colorate, di gente normale, di comuni spettatori, non i soliti
vecchi noiosi protagonisti del nulla.
Più di tutti mi ricordo di un
ragazzino, affacciato ad un balcone del primo piano di un palazzo proprio di
fronte ad uno dei locali più affollati, guardava tutti affascinato e mi
sembrava non potesse scendere, forse
perché i suoi non volevano. Però era sereno. Sembrava sapere cosa ci sarebbe
successo di li a poco, ma chissà come facesse a saperlo proprio non saprei
dire.
Noi avevamo già qualche birra di
troppo in corpo e decidemmo di buttarle giù con dei bicchierini di vodka,
giusto due o tre. Eravamo davvero un bel gruppetto e ci stavamo divertendo, quando
ad un certo punto passammo davanti ad uno strano marchingegno spiaggiato su un
marciapiede, una sorta di padiglione di plastica rigido, simile a quelli che
servono a captare le onde per la radio, ma questo era piuttosto grosso o forse
ci sembrava grosso perché non ne avevamo mai visto uno tanto da vicino. Un
gruppetto come il nostro, solo un po’ diversi (anche loro in cosa fossero
diversi proprio non saprei dire) ci sussurrò con una sola, inquietante voce :
“Fate attenzione, quello emette radiazioni”.
Il potere delle parole. Al suono
dei fonemi che compongono la parola “radiazioni” il nostro cuore piombò in un
abisso di pavidità. Le ginocchia tremano, mentre i più ottimisti provano a dire
“Dai figurati, non è niente”. Ma poi qualcuno in mezzo alla
folla sale su una macchina e indica la Mole gridando “Guardate la!!!” Il dito stava indicando la punta
della Mole che vibrava come un’antenna. Ci accorgemmo che dal padellone grigio
stavano partendo delle emanazioni di tipo ignoto a metà tra lo stato gassoso e
liquido, che infrangendosi alla base
della Mole la facevano vibrare dal basso
verso l’alto, circondata da anelli fluidi simili a neon di colore fuxia, poi
blu, poi giallo. La costruzione smise di vibrare per un istante. Poi esplose
sotto gli occhi increduli e le bocche aperte della folla. In un istante vicino ai padelloni
si manifestarono degli uomini vestiti di grigio con indosso delle vecchie
maschere antigas. L’effetto di straniamento era totale, non sapevamo più in che
epoca fossimo, la visione era futuristico-apocalittica, ma i dettagli provenivano
dal passato.
Che cos’è il panico? Come si
scatena? Il panico è un grido, anzi, il primo grido. Dopo di esso la pallina
non potrà fare nient’altro che scivolare in discesa. La gente intorno a noi
cominciò a correre senza capire cosa stesse succedendo e noi, senza essercene
nemmeno accorti, stavamo già correndo insieme a tutti loro. Le strade si
alzavano, come fossero ponti mobili, si alzavano e si abbassavano mettendoci in
condizioni di salita e di discesa ogni volta. Quando si abbassavano si riempivano
d’acqua, quando si alzavano l’acqua si ritirava. Non potevamo credere ai nostri
occhi: quale forza è in grado di sollevare le strade come fossero tavoli di
legno, senza spezzarle o romperle o farle sbriciolare? Che tipo di energia stava
influendo sulle leggi della fisica conosciute fino a pochi minuti fa? Era come
esserci materializzati dentro ad un incubo. Uscivamo dall’acqua ogni volta più
stanchi ma più veloci perché sempre più impauriti. Correndo verso un punto
indefinito mi venne spontaneo girarmi e vidi qualcosa che il mio cervello
associò immediatamente alla parola Astronave: grande come l’orizzonte, copriva
il cielo e si mescolava al colore della notte. Strane creature scendevano dalla
scaletta che fuoriusciva dalla pancia della nave rimasta sospesa al centro del
cielo, e mentre questi strani esseri si catapultavano sulla terra lanciavano
raggi di luce bianca contro le persone, che cadevano a terra svenute, chissà, forse
morte. Nessuno più disse una parola, ma
i nostri occhi si raccontaronoo che quella che stavamo vedendo era la fine,
secondo le modalità con cui Hollywood aveva sempre profetizzato sarebbe
avvenuta.
Ci separammo con la promessa di
incontrarci da li a breve, perché tutti erano in ansia per le proprie famiglie
e volevano riunirsi ad esse. Con i pochi rimasti mi avviai
verso casa ma proprio davanti alla panetteria sotto casa mia, dal portone del
fornaio uscì un commando di uomini incravattati, anch’essi grigi come quelli
con le maschere antigas, solo che questi avevano delle cravatte color antracite,
un libro verde in mano e delle ricetrasmittenti in perfetto stile anni ’80. Si misero a camminare dietro di noi e ad ogni
passo ci incalzavano dicendoci
“ Siete sopravvissuti alle
radiazioni, alle maree mobili e agli alieni, ma non sopravvivrete a Noi perché Noi
abbiamo deciso che Voi non potete passare visto che questa è la fine”.
Resistemmo al loro magnetismo e
non ci girammo a guardarli. Sembravano poterci convincere di avere paura di
loro ma allo stesso tempo non potevano farci nulla se noi non glielo
permettevamo. Forti di questa nuova
consapevolezza ci tuffammo nell’androne di casa mia ma le scale risultarono più
affollate di uno stadio durante il Super Bowl. A fatica e a spintoni giungemmo finalmente nel
mio appartamento dove c’era mio padre ad aspettarci: non c’erano più le porte e alcuni muri erano crollati, ma
lui era tranquillo e dentro c’era un sacco di gente che non conoscevo, ma che
sembrava abitare li. Cominciai a cucinare qualcosa per
tutti, perché ci venne fame, come sempre succede dopo un grande spavento, forse
lo stomaco vuole ricordarci che siamo ancora vivi. Fuori non si sentiva volare
una mosca e alcuni abitanti del mio appartamento decisero di preparare dei bagagli
con la mia roba. Li lasciai fare perche mi venne in mente che Battiato cantava
che alla fine del mondo non ci servirà l’inglese.
Cosa questo c’entri … non saprei
dire neanche questo, ma è ciò che mi venne in mente.
In quel momento comincio a pensare che forse il peggio è passato e che
se siamo li tutti insieme, a casa mia forse possiamo ancora farcela. Ma uno dei
miei nuovi coinquilini mi fa notare che fuori dalla finestra sta succedendo
qualcosa. C’è un pianeta nel cielo, è un pianeta non c’è dubbio, una palla
gigantesca di materia luminosa ma perfettamente definita, che oscura il cielo,
e che punta dritto verso di noi, silenzioso e inarrestabile.
È davvero la fine. Ci stringiamo l’un l’altro, pronti all’impatto. Il
pianeta è sempre più vicino, gira su stesso ad una velocità sproporzionata per
quelle dimensioni, con un’assenza di rumore altrettanto inquietante. L’unica cosa che riesco a pensare è “Forse è un privilegio essere qui,
coscienti e presenti a sé stessi per vederlo. È uno spettacolo maestoso”.
Poi l’impatto, il buio, la fine, eccolo il momento presente, solido e
cristallizzato in tutta la sua sconcertante concretezza. La morte il nulla il
buio il silenzio. Eccovi, compagni di una vita, trascorsa a temervi. I vostri
volti ora sono davanti a me.Stringo chi ho intorno e chiudo gli occhi proprio mentre il cuore si ferma. Ancora silenzio.
Non sento lacerarsi nulla e allora riapro gli occhi. Sono ancora nella
stanza e tutti sono ancora li al loro posto, stretti uno contro l’altro. Solo
non c’è più il tetto. Siamo ancora tutti qui, consapevoli di essere morti ma stranamente calmi
e nello stesso posto.
Perché? Chiedo a mio padre.
Perché la morte alla fine è questo: soltanto un sogno, un sogno pieno
di luce.
Chiudo e riapro gli occhi. Se è un sogno, allora l’unica cosa che devo
fare è svegliarmi.