lunedì 15 luglio 2013


 
Stavamo festeggiando nel quartiere Vanchiglia. Era una notte bianca, ma Dostoevski non c’era, c’erano le strade chiuse al traffico delle automobili e tutti i negozi all’esterno avevano improvvisato dei piccoli dehors dove potevi bere, mangiare, tirare le freccette, farti fare un orlo al pantalone o magari farti predire il futuro.  Nelle stradine si stava riversando un fiume di gente di ogni tipo, giovani vecchi e bambini mescolati insieme, ma la persone che ti colpivano di più erano quelle che non uscivano mai, le riconoscevi dal loro guardarsi intorno con occhi meravigliati un po’ come quando cammini a Venezia e vedi l’acqua al posto delle strade e non ci credi e ti aspetti di vedere il Don Giovanni passare su una gondola. Anche Torino quella sera sembrava una città diversa, una piccola metropoli anteguerra, senza le macchine, una città strana fatta di voci, musica e bancarelle colorate, di gente normale, di comuni spettatori, non i soliti vecchi noiosi protagonisti del nulla.
Più di tutti mi ricordo di un ragazzino, affacciato ad un balcone del primo piano di un palazzo proprio di fronte ad uno dei locali più affollati, guardava tutti affascinato e mi sembrava  non potesse scendere, forse perché i suoi non volevano. Però era sereno. Sembrava sapere cosa ci sarebbe successo di li a poco, ma chissà come facesse a saperlo proprio non saprei dire.
Noi avevamo già qualche birra di troppo in corpo e decidemmo di buttarle giù con dei bicchierini di vodka, giusto due o tre. Eravamo davvero un bel gruppetto e ci stavamo divertendo, quando ad un certo punto passammo davanti ad uno strano marchingegno spiaggiato su un marciapiede, una sorta di padiglione di plastica rigido, simile a quelli che servono a captare le onde per la radio, ma questo era piuttosto grosso o forse ci sembrava grosso perché non ne avevamo mai visto uno tanto da vicino. Un gruppetto come il nostro, solo un po’ diversi (anche loro in cosa fossero diversi proprio non saprei dire) ci sussurrò con una sola, inquietante voce : “Fate attenzione, quello emette radiazioni”.

Il potere delle parole. Al suono dei fonemi che compongono la parola “radiazioni” il nostro cuore piombò in un abisso di pavidità. Le ginocchia tremano, mentre i più ottimisti provano a dire “Dai figurati, non è niente”. Ma poi qualcuno in mezzo alla folla sale su una macchina e indica la Mole gridando “Guardate la!!!” Il dito stava indicando la punta della Mole che vibrava come un’antenna. Ci accorgemmo che dal padellone grigio stavano partendo delle emanazioni di tipo ignoto a metà tra lo stato gassoso e liquido, che  infrangendosi alla base della Mole la facevano  vibrare dal basso verso l’alto, circondata da anelli fluidi simili a neon di colore fuxia, poi blu, poi giallo. La costruzione smise di vibrare per un istante. Poi esplose sotto gli occhi increduli e le bocche aperte della folla. In un istante vicino ai padelloni si manifestarono degli uomini vestiti di grigio con indosso delle vecchie maschere antigas. L’effetto di straniamento era totale, non sapevamo più in che epoca fossimo, la visione era futuristico-apocalittica, ma i dettagli provenivano dal passato.
Che cos’è il panico? Come si scatena? Il panico è un grido, anzi, il primo grido. Dopo di esso la pallina non potrà fare nient’altro che scivolare in discesa. La gente intorno a noi cominciò a correre senza capire cosa stesse succedendo e noi, senza essercene nemmeno accorti, stavamo già correndo insieme a tutti loro. Le strade si alzavano, come fossero ponti mobili, si alzavano e si abbassavano mettendoci in condizioni di salita e di discesa ogni volta. Quando si abbassavano si riempivano d’acqua, quando si alzavano l’acqua si ritirava. Non potevamo credere ai nostri occhi: quale forza è in grado di sollevare le strade come fossero tavoli di legno, senza spezzarle o romperle o farle sbriciolare? Che tipo di energia stava influendo sulle leggi della fisica conosciute fino a pochi minuti fa? Era come esserci materializzati dentro ad un incubo. Uscivamo dall’acqua ogni volta più stanchi ma più veloci perché sempre più impauriti. Correndo verso un punto indefinito mi venne spontaneo girarmi e vidi qualcosa che il mio cervello associò immediatamente alla parola Astronave: grande come l’orizzonte, copriva il cielo e si mescolava al colore della notte. Strane creature scendevano dalla scaletta che fuoriusciva dalla pancia della nave rimasta sospesa al centro del cielo, e mentre questi strani esseri si catapultavano sulla terra lanciavano raggi di luce bianca contro le persone, che cadevano a terra svenute, chissà, forse morte. Nessuno più disse una parola, ma i nostri occhi si raccontaronoo che quella che stavamo vedendo era la fine, secondo le modalità con cui Hollywood aveva sempre profetizzato sarebbe avvenuta.
Ci separammo con la promessa di incontrarci da li a breve, perché tutti erano in ansia per le proprie famiglie e volevano riunirsi ad esse. Con i pochi rimasti mi avviai verso casa ma proprio davanti alla panetteria sotto casa mia, dal portone del fornaio uscì un commando di uomini incravattati, anch’essi grigi come quelli con le maschere antigas, solo che questi avevano delle cravatte color antracite, un libro verde in mano e delle ricetrasmittenti in perfetto stile anni ’80.  Si misero a camminare dietro di noi e ad ogni passo ci incalzavano dicendoci

“ Siete sopravvissuti alle radiazioni, alle maree mobili e agli alieni, ma non sopravvivrete a Noi perché Noi abbiamo deciso che Voi non potete passare visto che questa è la fine”.

Resistemmo al loro magnetismo e non ci girammo a guardarli. Sembravano poterci convincere di avere paura di loro ma allo stesso tempo non potevano farci nulla se noi non glielo permettevamo. Forti di questa nuova consapevolezza ci tuffammo nell’androne di casa mia ma le scale risultarono più affollate di uno stadio durante il Super Bowl.  A fatica e a spintoni giungemmo finalmente nel mio appartamento dove c’era mio padre ad aspettarci:  non c’erano  più le porte e alcuni muri erano crollati, ma lui era tranquillo e dentro c’era un sacco di gente che non conoscevo, ma che sembrava abitare li. Cominciai a cucinare qualcosa per tutti, perché ci venne fame, come sempre succede dopo un grande spavento, forse lo stomaco vuole ricordarci che siamo ancora vivi. Fuori non si sentiva volare una mosca e alcuni abitanti del mio appartamento decisero di preparare dei bagagli con la mia roba. Li lasciai fare perche mi venne in mente che Battiato cantava che alla fine del mondo non ci servirà l’inglese.

Cosa questo c’entri … non saprei dire neanche questo, ma è ciò che mi venne in mente.

In quel momento comincio a pensare che forse il peggio è passato e che se siamo li tutti insieme, a casa mia forse possiamo ancora farcela. Ma uno dei miei nuovi coinquilini mi fa notare che fuori dalla finestra sta succedendo qualcosa. C’è un pianeta nel cielo, è un pianeta non c’è dubbio, una palla gigantesca di materia luminosa ma perfettamente definita, che oscura il cielo, e che punta dritto verso di noi, silenzioso e inarrestabile.
È davvero la fine. Ci stringiamo l’un l’altro, pronti all’impatto. Il pianeta è sempre più vicino, gira su stesso ad una velocità sproporzionata per quelle dimensioni, con un’assenza di rumore altrettanto inquietante. L’unica cosa che riesco a pensare è “Forse è un privilegio essere qui, coscienti e presenti a sé stessi per vederlo. È uno spettacolo maestoso”.
Poi l’impatto, il buio, la fine, eccolo il momento presente, solido e cristallizzato in tutta la sua sconcertante concretezza. La morte il nulla il buio il silenzio. Eccovi, compagni di una vita, trascorsa a temervi. I vostri volti ora sono davanti a me.
Stringo chi ho intorno e chiudo gli occhi proprio mentre il cuore si ferma. Ancora silenzio.

Non sento lacerarsi nulla e allora riapro gli occhi. Sono ancora nella stanza e tutti sono ancora li al loro posto, stretti uno contro l’altro. Solo non c’è più il tetto. Siamo ancora tutti qui,  consapevoli di essere morti ma stranamente calmi e nello stesso posto.
Perché? Chiedo a mio padre.
Perché la morte alla fine è questo: soltanto un sogno, un sogno pieno di luce.
Chiudo e riapro gli occhi. Se è un sogno, allora l’unica cosa che devo fare è svegliarmi.