venerdì 22 marzo 2013


Stavo andando a lavorare, come ogni giorno.

Gli occhi attenti, concentrati sulla guida, il corpo rilassato, una mano sul volante, l’altra sul cambio. Sempre la stessa strada, tutti i giorni. La radio trasmette un pezzo rock anni '60 ("Get your motor running, head out on the highway”) comincio a tamburellare con le dita sul volante al ritmo del brano. Giro la solita curva, supero il parco e premo l’acceleratore. Di fronte a me il paesaggio si allarga e vedo chiaramente, come ogni giorno, la catena montuosa in tutta la sua bellezza: il centro commerciale in cui lavoro è appena fuori città, ma non c’è nulla intorno, costruzioni o case, niente di niente e lo sguardo riesce ad abbracciare una fetta di orizzonte davvero grande. È come se mi trovassi di fronte ad un gigantesco quadro, un affresco apparso all’improvviso sotto i miei occhi che ormai prendevano per scontato quel tragitto e invece oggi… un’illuminazione, come se fossi entrata in un museo interattivo di arte moderna, come se l’immagine di fronte a me fosse immobile, non vera, fumettata, una foto artistica gigantesca, incastrata tra me e il fondo della strada: le montagne.
Tutte, completamente bianche di neve. Le diverse cime come picchi dell’elettrocardiogramma degli dei, tutto quel latte, stagliato contro l’azzurro imbarazzante del cielo. E in mezzo alla scena una luna, bianca anche lei, tonda, perfettamente al centro, con i suoi crateri e le sue storie di buio, così solida così lontana dall’opalescenza notturna, ferma e immobile, regina sovrana di quell’immagine che, ormai sono sicura, è di cartone. Non riesco a smettere di guardare,  percepisco lo spazio e tutta l’aria fredda che c’è dentro e vorrei fermare la macchina, fare delle foto. Non posso farlo senza evitare un incidente e quindi scatto una foto mentale. Mi viene voglia di ringraziare dio per il regalo che mi sta facendo, era da tanto che non vedevo qualcosa di tanto bello.  Come se la luna fosse fatta della stessa sostanza di cui sono fatte le montagne, come se un pezzo di montagna si fosse staccato per salire fino al cielo. Silenzio e azzurro, nemmeno una nuvola, e tutto lo stupore delle cose che non ho ancora visto si impadronisce di me. Questo senso di nuovo, di sconosciuto, mi cattura e mi allontana dalla realtà.
Ho pochi secondi di tempo per decidere: alla rotonda gira a sinistra e sei al lavoro.
Oppure prosegui dritto e vai verso le montagne.
Pochi secondi.
In pochi secondi penso al mio contratto di lavoro e al fatto che mi è stato confermato a tempo indeterminato, una vera fortuna in questi folli tempi di crisi. Penso al mio viso che si sforza di sorridere ai clienti che, preoccupatissimi, mi chiedono consigli sull’acquisto di un nuovo orologio (non si preoccupi, lo rassicuro, uscirà di qui con l'orologio giusto). Penso a tutte le battute sarcastiche che mi sono venute in mente e che non ho mai fatto,  di fronte ai ragionamenti assurdi dei miei capi, penso a quante volte ho offeso la mia intelligenza facendo FINTA, facendo vincere la diplomazia e la gentilezza in nome del quieto vivere, prendendo ogni volta a pugnalate nella schiena la logica e la ragione. Penso a tutti gli anni passati a studiare di giorno e a lavorare di notte sognando di cambiare il sistema, sognando di far conoscere gli intrighi dostoevskiani e la poesia di Proust ai miei alunni, sognando di far conoscere loro Irvine Welsh e Coppola e Kusturica nella speranza che magari non avrebbero abbandonato del tutto la dipendenza dal televisore ma almeno quella da Alessia Marcuzzi e da Maria De Filippi, da discorsi stereotipati pensati per loro da qualcun altro ( attenzione non i beneamati discorsi da bar sport, che Benni li abbia in gloria, ma i discorsi che sono soltanto rumore, volgare rumore di sacchetti vuoti, di luoghi comuni scaldati al microonde, serviti ogni volta come pietanze diverse, in realtà sempre uguali, masticati da bocche stanche e rassegnate).
Penso a tutto questo e in pochi secondi le immagini di una vita mi passano davanti agli occhi, come per incanto, come sotto l’influsso magico di quella luna bianca e diurna, sorpresa in flagrante nell’atto di copulare con le cime di quei monti solitari eppure allegri.
Mi sento come Steve McQueen, pronta per la grande fuga, ho solo i capelli più lunghi e  le dita sul volante smaltate di rosa (capelli che ora, come per magia infusa, luccicano al sole, brillano da dentro come la luce interiore che sprigiona Naruto quando si trasforma). Il cuore che batte  nella cassa toracica è quello di  Billy e Wyatt, non ci sono dubbi. Mi mordo le labbra, non potendo contenere la  voglia di fuggire, l’ansia buona di mangiare il mondo  che sto immaginando dietro a quel dosso.
“Non ha senso scappare dal dovere in un giorno come questo soltanto perché hai visto la luna di giorno” mi suggerisce saggiamente e tutto d'un fiato la voce della mia coscienza, la mia severissima gemella di nome Rottenmeier.
La guardo dall’esterno, i suoi occhialetti inforcati, i suoi capelli raccolti e mai fuori posto, il suo colletto della camicia perfettamente stirato e rigido e… mi viene da ridere.
“Non mi freghi stavolta, Rottenmeier”. Premo l’acceleratore e vado dritta, lasciando la curva per il centro commerciale alle mie spalle. La vedo allontanarsi nello specchietto, la Rotten. Mi guarda sconcertata ma, con i suoi occhi tristi,  diventa un puntino sempre più lontano.
E mi dirigo, senza alcun ripensamento, strafatta di gioia, verso le montagne bianche, verso quella strana, magnifica luna bianca.
 
 

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