domenica 7 aprile 2013


Quando si lavora in un centro commerciale bisogna fare molta attenzione a non perdere il contatto con la realtà.
Sono stati fatti degli studi a questo proposito: i centri commerciali sono stati definiti "non luoghi" perché in realtà sono posti che non esistono, un po' come Disneyland o la finta Venezia di Las Vegas.
Il neologismo di derivazione francese ('non lieu') da una parte indica il tale spazio costruito con una finalità precisa, svago o commercio che sia, dall'altra esprime il tipo di rapporto che si crea tra gli individui e quegli stessi spazi.





Uno dei tanti paradossi dei non luoghi è, per esempio, quello del viaggiatore smarrito che ritrova sé stesso dall'altra parte del mondo, nell'anonimato di un'autostrada o di una stazione di servizio, soltanto perché ha trovato una delle proprie catene di ristoranti preferita e si sente così a casa.
All'interno dei non luoghi l'individuo perde le proprie caratteristiche personali per riconoscersi solo in qualità di fruitore (vedi i vari imperativi 'non oltrepassare la striscia bianca', 'area fumatori', 'area relax' , 'divieto di accesso con i carrelli' o 'col gelato' o ancora 'con il cane').
È come se al momento dell'ingresso nella struttura si acquisisse una nuova identità sociale.
Qualche docente italiano sostiene che i c.c. (Centri Commerciali) invece siano iper-luoghi, ricchi di interazioni. Vero, in parte, soprattutto per chi ci lavora. E va bene vedere il bicchiere mezzo pieno; ma poi fa un errore: definisce l'uomo e le sue esigenze chiamandolo 'consumatore'.
"I consumatori oggi hanno esigenze diversificate e complesse". Certo, l'offerta è ricchissima, la stessa offerta straripante che ci ha portati al collasso perché tutti vogliono essere ricchi e inventarsi qualcosa da produrre per creare un bisogno laddove prima c'era appagamento, ma... È davvero possibile parlare delle esigenze dell'uomo in termini di mercato? Dove lo mettiamo l'intimo bisogno di 'verde' che hanno gli occhi di tutti gli uomini?
Forse chiamare l'uomo "uomo" è diventato troppo romantico? Desueto?
Il nostro istinto, sepolto dall'ipocrisia del buon costume, grida che siamo uomini molto prima di essere consumatori. Anche se stiamo diventando latrine in cui pochi furbi riversano i loro rifiuti, dandoci l'illusione di avere la possibilità di scegliere, l'illusione dell'offerta diversificata che ci rende liberi. Siamo solo carburante per le loro macchine di lusso, non dimentichiamolo.
Premesso questo...
Ecco perché, per me, la letteratura e il cinema sono necessità,  non mezzi per riempire il tempo libero, ma risposte ai miei bisogni esistenziali. Perché sono altri mondi in cui posso immergermi quando non ho la possibilità di spostarmi fisicamente. Quando non posso preparare le valigie per fuggire, i libri mi aiutano comunque a tenere aperte le finestre che danno sui mondi che esistono al di fuori di qui, e così la linea del mio orizzonte non si chiude.
Ok, mi sono dilungata un po' come al solito, ma questa premessa mi era necessaria per introdurre un super film del 2011, che non vedevo l'ora di condividere con voi, "God bless America".


Un americano medio, sui 45 anni, svolge con diligenza il proprio lavoro. Divorziato e vessato dalla sua ex moglie e dai capricci assurdi della figlia, in fase pre-adolescenziale, consuma i suoi giorni tra antidolorifici, cibo spazzatura e insonnia. Finché un giorno scopre di avere un tumore al cervello, e pochi giorni da vivere.
Decide di farla finita (da bravo americano medio ha un bel ferro nel cassetto) ma mentre si infila la canna della pistola in bocca, sul divano, davanti al televisore, assiste alla scena di un reality dove una giovane rampollina di 16 anni, cheerleader invidiata e adorata da tutta la scuola, si fa venire una crisi di nervi, tra grida isteriche e lacrime, perché i genitori le regalano un auto per il suo compleanno... del colore sbagliato.
Allora il nostro amico capisce che non è lui a dover morire, bensì lei e insieme a lei tutti coloro che hanno perso il senso della realtà nutrendosi di maleducazione e pretenziosità.
Comincia così il suo viaggio in auto, nel cuore dell'America, ad uccidere persone da un posto all'altro, seguito da una ragazzina che diventa sua fan dopo aver visto l'uccisione della protagonista del reality.


Ovviamente il film non è un tacito incoraggiamento a sterminare il genere umano: si tratta, senza dubbio, di una pellicola molto forte, a tratti scioccante, ma l'archetipo che si nasconde dietro alle immagini è quello della distruzione intesa come necessità di azzerare il peggio del mondo malato in cui viviamo per rinnovare in maniera decisa la natura delle priorità di ogni individuo, per ritrovare il senso di umanità che si sta inevitabilmente perdendo. L'urgenza di un capovolgimento totale dell'ordine conosciuto, che oramai non funziona più. Sarebbe fantastico riuscire a distruggere, e poi edificare, senza le armi ma solo con la forte convinzione delle idee.
Gli scenari che prospettano distruzione mi spaventano da sempre, ma, non lasciatevi ingannare, qui bisogna andare oltre: il regista (Bobcat Goldthwait) non vuole essere apocalittico ma solo sottolineare quanto sia grande la necessità di invertire la scala di valori in voga oggi. Rimediare all'infinitamente profonda e subdola pattumiera in cui a volte rimaniamo incastrati e dalla quale ci nutriamo quando pensiamo all'uomo in termini di consumatore e non di animale meraviglioso dotato del dono dell'intelletto, con bisogni spirituali oltre che fisiologici.
Questo film ovviamente finisce male, malissimo anzi, ma i picchi di godimento che si raggiungono durante la visione sono altrettanto alti e acuti.



La colonna sonora è un dieci e lode secco e parecchie scene, seppur stomachevoli, si insinueranno in voi attraversando la  corteccia cerebrale, per farvi riflettere in maniera disincantata sulla realtà dei finti mondi che alcuni "psiconani" ci propinano attraverso lo schermo della tv. Visione disincantata ma non per questo pessimista, al contrario, credo che chi ha amore per la vita non può non accorgersi di quanto la nostra epoca sia sempre più una "imitation of life", come direbbe il buon Michael Stipe.
A volte servono immagini crude per farci riemergere dal coma, per gridare più forte delle voci salmodianti e ben pagate dei media globalizzati, per farci scrollare di dosso la polvere della pigrizia, per raggiungere una consapevolezza del sé che vada oltre l'identificazione dell'essere legata al nostro ruolo sociale, che se da una parte strizza sempre più l'occhio ai concetti di possesso e ricchezza, dall'altra è sempre meno intrisa di senso civico collettivo.


P.s. 1 Godetevi il trailer cliccando qui.
P.s. 2 La domenica, se potete, andate sui prati. Cosa ci fate sopra, è affar vostro.

1 commento:

  1. Questo film sembra irresistibile...non vedo l'ora di vederlo (in qualche modo, dato il mio inglese).
    Sai...penso sempre anch'io a quanto il ruolo di consumatori snaturalizzi e svilisca la nostra predisposizione alla contemplazione, che per sua conformazione si nutre di immobilismo estatico e che quindi non necessita di nulla, se non della nostra presenza in un luogo che ci provochi piacere per il solo motivo che esiste.
    Andare su un prato può essere una buona medicina domenicale alla deprivazione di questi momenti che non necessitano di scontrino.
    Un abbraccio, ti seguo. :-)

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