sabato 20 aprile 2013

“Stop!!!”
“Prego, scendere. Questa è la sua fermata”
“…ma io veramente non sono ancora pronta, e poi vorrei fare ancora un giro”
“Certo… Lo sappiamo, lo vorrebbero tutti… ma questa è la sua fermata, non si attardi, complicherebbe solo le cose, mi creda”
Game over.
 E grazie per tutto il pesce” direbbero i delfini di Douglas Adams, un secondo prima di abbandonare la terra.
Poteva andare cosi, un semplice click e la luce si spegne. Buio e odore di muffa, come quando si è tanto vicini alla terra dopo che è piovuto.
Nel buio qualcosa cede e l’universo ordinato, un attimo prima sotto il tuo controllo, comincia a scivolare, comincia a pattinare come le ruote messe di traverso sull’asfalto di una strada extraurbana, senza il minimo freno.
Un istante prima dello schianto (te lo aspetti e in un nano secondo sei consapevole del fatto che arriverà) i rumori interni si azzerano e quelli esterni arrivano da lontano, come se provenissero da
un’altra dimensione.
All’interno dell’abitacolo il tempo si ferma e si dilata (“Non è vero, dimmi che è un sogno”) e scopri per la prima volta qual è il vero significato dell’espressione “ vedere tutto al rallentatore”.
Poi, finalmente, l’impatto. Non uno ma due, anzi tre. E mentre rimbalzi e giri, come dentro ad un gigantesco flipper dove la forza di gravità cede il passo a quella centrifuga,  ti vedi dall’alto e, nonostante ciò, non pensi a nulla, riesci soltanto a guardare te stesso e la scena con gli occhi sgranati, dall’esterno.
 
In quel momento ho capito che spesso vediamo e  immaginiamo le cose nello stesso momento, sovrapponendo la realtà all’ elaborazione che il nostro cervello fa di essa, il tutto in maniera inconsapevole e questo mix determina ciò che chiamiamo l’interpretazione personale del mondo che si manifesta sotto i nostri occhi.
Mi è successo di rendermene conto di nuovo, qualche giorno fa: seduta in cucina ascoltavo i miei genitori raccontare un episodio accaduto al lavoro e insieme a me c’era una persona che li conosce da pochissimo tempo e ho pensato: stiamo guardando la stessa scena e ascoltando lo stesso racconto, ma stiamo vedendo due cose completamente diverse.
Ne ho dedotto che talvolta il tempo e lo spazio non sono valide coordinate per riferirsi alla stessa porzione di realtà.
 
 
Un certo Propp sosteneva che gli umani non riescono ad approcciarsi alla realtà se non raccontandola. Io credo molto in questa cosa e credo molto nelle storie che si nascondono dietro o dentro le persone, dietro o dentro agli oggetti, feticci totem o simulacri che siano. E credo anche che certi eventi possano essere capiti solo se esternati, sotto forma di racconto. Questo è il mio modo di capire la realtà. Forse sono solo un po’ lenta e ho bisogno di rivedere le cose, di raccontarle a me stessa per afferrarne il senso.
Per fortuna le storie possono essere raccontate non solo sul piano linguistico ma anche attraverso percorsi di suggestioni provocate dalla musica e dalle immagini. Fare questo non è facile ma alcuni ci riescono.
Terrence Malick ci riesce (però lui ha insegnato filosofia per anni e questo senza dubbio lo aiuta...). E così, durante questa permanenza forzata, ho guardato “To the wonder”.
 




 

In questo film non c’è una trama che si sviluppa secondo le funzioni  narrative intese in senso classico e i dialoghi sono pressoché  assenti, quindi sappiate che potreste addormentarvi ma le immagini, sempre secondo la mia profana opinone,  sono perfette, struggenti.  Toccano “quel qualcosa di invisibile” di cui parla uno dei protagonisti del film, invisibile e indefinibile ma potente, tanto da farci piangere, a volte, o da farci aprire i palmi delle mani verso il cielo pensando per un istante di aver toccato Dio.
 
In questo film ci sono due amanti che da Parigi si trasferiscono nell’Oklahoma. E poi c’è Javier (Bardem, e come poteva non piacermi) nel ruolo di un prete che non riesce più a sentire Dio, un uomo di fede che ha perso la fede, che non riesce a vedere la parte spirituale che si nasconde nella luce del mondo ma ne percepisce soltanto l’urlo di dolore, di profonda sofferenza e solitudine. Io mi sono esaltata parecchio con questo film (anche se l’unica parte che abolirei sono i continui svolazzamenti e balletti della parigina, caspita non puoi farlo continuamente!) ma, ripeto, è personale, a Cannes il film è stato tanto fischiato quanto osannato. Ovviamente vi consiglio di guardarlo, fosse solo per togliervi il dubbio.
 




O magari potreste cominciare a leggere Underworld di Don DeLillo: una pallina da baseball che va da una parte all’altra degli States, da un epoca all’altra, ripercorrendone la storia dagli inizi del secolo scorso in 880 pagine. Questo libro offre tantissimi aspetti su cui riflettere. (cito testualmente: “Sapete come certi posti acquistino una forza sempre maggiore nella mente col passare del tempo. Nei miei sogni di prima mattina quando torno a letto dopo una pisciata insonnolita e piombo rapidamente nell’ultimo tratto di notte, c’è una serie di stradine in cui continuo a ritornare, una nebbia indistinta di stanze, un’infilata di stanze che si aprono su un corridoio lungo e stretto…” ).




Oppure fermate uno per la strada e mettetevi a parlare con lui. Ma qualcosa fate, vi prego.

Perché se dovessi esprimere un desiderio chiederei solo questo, di continuare ad avere la possibilità di spostarmi stando ferma, di liberarmi dal superfluo, di non dimenticarmi che anche se l’involucro è il biglietto da visita che porgo agli altri quando li incontro, è pur sempre un involucro che non necessita di tacchi alti e guardaroba ricercato ma bensì di una struttura robusta fatta di introspezioni profonde ( non intellettualmente profonde ma ONESTAMENTE profonde) introspezioni che non abbiano paura delle domande, ma che considerino il momento in cui ti manca la terra sotto i piedi (quando scivoli e perdi la salda impugnatura del controllo) come un momento in cui approfittarne per crescere e cambiare direzione, per un nuovo inizio (non importa quanti saranno) e per non ritrarsi intimoriti di fronte al grande spettacolo whitmaniano.

 
 
 

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