domenica 20 gennaio 2013





Metti un ragazzo cresciuto ad Astoria, nel Queens, uno dei quartieri più malfamati di New York, che vive la sua  adolescenza a cavallo tra gli anni 60 e 70. Il ragazzo, figlio di emigrati (un nicaraguense e una irlandese) cresce in una condizione piuttosto difficile e passa un’infanzia che, con un eufemismo, potremmo definire ‘burrascosa’. Per lo meno,  riesce a non farsi ammazzare e a trovare pace solo molti anni dopo quando scrive un romanzo autobiografico in cui racconta le sue esperienze all’interno del quartiere degradato, romanzo intitolato ‘Guida per riconoscere i tuoi santi’.
Quel ragazzo è Dito Montiel. Un bel giorno un affascinante signore entra in libreria e compra il libro di Dito, lo legge e se ne innamora, va da lui e gli dice
-Dito, questo libro deve assolutamente  diventare un film.
-Ma, sai, mi piacerebbe molto, visto che nel frattempo ho anche preso qualche nozione da regista, ma come lo produciamo?
-Non ti preoccupare per i soldi, penserò io alla produzione, ma ad un unica condizione, voglio la parte del protagonista.
- Va bene la parte è sua, signor Robert Downey Junior.

Ecco come è nato “Guida per riconoscere i tuoi santi” , un film del 2006 che per le tematiche potrebbe ricordare The Sleepers. È la storia di uno scrittore di successo che non torna a casa sua da un pezzo e lo fa solo quando sua madre lo chiama per dirgli che il padre sta morendo; ma tornare significa rincontrare i pochi amici rimasti non ancora morti o in prigione e fare i conti con un passato dal quale era fuggito.
 
 
Alla 63esima mostra internazionale del cinema di Venezia questa pellicola ha vinto il premio della critica e anche il premio speciale della giuria del Sundance per la miglior regia. Persino Sting e Chazz Palminteri hanno messo mano al portafoglio perchè hanno creduto in questo progetto indipendente. Un bel debutto insomma.


Ecco perché l’altra sera, quando ho visto che  su Raidue trasmettevano  “No one son”, sempre di Montiel, ho resistito al  calduccio del mio lettino e sono rimasta sveglia a guardarlo. Il film racconta la storia di un poliziotto che comincia a ricevere lettere del genere “so cosa hai fatto” e ancora una volta un segreto nascosto durante l’adolescenza torna a bussare alla porta del protagonista.  Nel cast: Ray Liotta, Juliette Binoche, Al Pacino e Channing Tatum. Pensavo che quest’ultimo sarebbe stato schiacciato dall’affiancamento con questi mostri sacri e invece mantiene un profilo molto basso e umile e il risultato è onesto, veritiero e molto intenso.
 
Consiglio entrambi questi film, anche se il primo è più brillante e il secondo un po’ piu lento, la qual cosa non è assolutamente una discriminante, ma solo un’indicazione oggettiva per aiutarvi a scegliere a seconda del vostro palato.
 
(Vorrei essere cosi brava da esprimere la sensazione che si prova a guardare certe immagini… deja vu? Sensazione di casa? Non saprei. Guardando questi film però, sopratutto il primo, sono negli anni '70, sono li con loro per le strade del Queens, con i miei pantaloncini corti, rossi, e una canottiera bianca, appoggiata ad uno dei muri beige dei palazzoni, guardo gli altri ragazzini giocare con gli idranti in un torrido agosto, e gli sorrido, perchè la strada è la nostra casa. Non so spiegare queste sensazioni, non so spiegare perché mentre guardo, mi ricordo di un odore in particolare, l’odore dell’acqua che evapora dal cemento, l’odore che sento nell’androne buio che attraverso per rientrare a casa, ma quando un film mi fa viaggiare così tanto, è un ottimo segno. O forse sono semplicemente andata).

Comunque... li consiglio perché le storie di Dito sono vere, perché lui è uno scrittore che è riuscito a lavorare egregiamente non soltanto con le parole ma anche con la parte visiva della propria immaginazione, e in questa capacità c’è di sicuro del talento. Mi è piaciuto molto il suo saper  rievocare il passato in maniera nostalgica ma disincantata. Mi è piaciuta l’ossessione di voler conciliare la violenza che a volte ci troviamo dentro al cuore (come dicono i Muse). E mi è piaciuta la certezza che se sei stato obbligato ad assaggiare l’amaro più intenso contro la tua volontà... l’amaro medio quotidiano, di cui con tanta facilità ci si lamenta,  può diventare addirittura dolce.
Dalle trame dei due film appare chiaro che il nostro amico Dito ha una poetica di base autobiografica, caratterizzata dal malessere che si prova quando si ha un segreto da occultare. Segreti nascosti perché inconfessabili, perché te ne vergogni, perché anche se frutto di un abuso e quindi innocenti, una volta tirati fuori prendono forma e diventano reali. E alla fine ti fanno sentire in colpa lo stesso perché soffocandoli stai  negando a te stesso  la possibilità di intraprendere un processo di guarigione.
 
Il rimaneggiamento del  passato diventa terapeutico. Romanzare la realtà implica la voglia di rimanere attaccati alla parte buona della vita con le unghie e con i denti,  di trovare i “santi” in mezzo al male, quelle persone che seppur appartenenti al passato (cristallizzate nelle nostre menti nel loro momento più profondo o più disperato)  diventano solide ed eterne, per quanto umane e fragili, e per questo ti aiutano a vivere la vita quando si fa incerta e aspra. Loro sono i tuoi santi, il tuo punto di riferimento. A volte se ne vanno, ma ti accompagnano per tutta la vita. Mi piace pensare questo, perché non riesco a trovare un significato all’esistenza se non inserendola in un contesto di eternità.
Mi ricordo che avevo comprato questo film qualche anno fa, proprio perché incuriosita dal titolo e perché Rolling Stones ne aveva parlato bene. Mi chiedevo cosa volesse significare quel titolo così insolito.
Ora che ho incontrato i miei santi, ho capito.

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