domenica 22 settembre 2013

 


                                       
 
Torno a Torino e, anche se amo le partenze, sono sempre contenta di tornare.
Trovo ad aspettarmi tante cose da fare, faccende da sbrigare, libri da sistemare, piccoli uomini grigi addetti alle manovre burocratiche che vorrebbero rinchiudermi nell'antro della cittadella fatta di scartoffie, nonchè montagnole di vestiti che mi guardano e che aspettano di essere stirati prima di poter andare a dormire nei loro armadi.
E per me che sono un'ossessiva compulsiva dell'ordine e della pulizia, non è facile ignorarli.
Stamattina però decido di spegnere la luce e di godermi la mia piccola sala cinema, nella mia nuova casa, e a stirare ci penserò più tardi.
Il film che ho scelto è in bianco e nero, è di Woody Allen e si intitola Manhattan. Come sempre cerco qualche informazione sul film e scopro che nell'ottanta ha vinto il premio BAFTA come Miglior Film e Migliore Sceneggiatura, il premio César e il Nastro d'Argento. Ha ricevuto due nomination all'Oscar,  una al Golden Globe, una agli Awards of Japanese Academy e mi fermo qui perchè ha ricevuto molte altre cose ma potrebbe non interessarvi.
Mi viene da chiedermi se questo film è solo un noioso esercizio accademico. Devo dire che, nonostante mi piaccia molto, ho sempre pensato che Woody Allen sia sopravvalutato.
Con tutti questi pregiudizi premo play.
Contro ogni previsione le primissime note della colonna sonora mi rubano il cuore, in un istante: mi riportano alla mente un autunno lontanissimo, piovoso, una sera verso l'ora di cena. Erano gli anni Ottanta e la gente correva verso le proprie case illuminate, in cerca di tepore, lasciando il mondo fuori. Fuori, la via principale del mio quartiere era illuminata dai neon colorati delle insegne dei negozi che si riflettevano sulle strade bagnate creando un effetto arcobaleno dentro al buio della notte che si stava avvicinando. Io ero piccola, ed ero felice che esistesse una cosa misteriosa come la notte, e che esistesse un mondo che veniva bagnato dalla pioggia. Mi ricordo che dal sottofondo della tv proveniva proprio questa musica.
 
 
Quella musica, a sua volta, mi faceva pensare ad una città lontana, piena di gente che la sera tornava a casa ma che poi usciva di nuovo o, per lo meno, rimaneva sveglia davanti a degli oggetti chiamati computer, una città mitizzata dai film e vista solo nelle foto. Questa città per me era il simbolo dell'Altrove, di ciò che esisteva dall'altra parte del mondo, che stava lì anche se io non l'avevo mai visto, e il caso vuole che fosse un luogo dove le tartarughe di notte si infilavano nei tombini per imparare le arti marziali da un topo gigante, un posto dove uscivi per bere qualcosa dopo cena e se non facevi attenzione potevi capitare in un quartiere chiamato Chinatown, dove poteva succederti di infilarti in grossi guai, sempre tra le insegne al neon e sotto la pioggia.
 
Mi stacco da queste reminescenze proprio in tempo. Partono le immagini ed ecco Manhattan che si infila negli occhi con una potenza che mi fa dematerializzare e mi porta via della stanza, eccomi tra le strade di New York. Forse nessuno è riuscito a rendere così bene l'ideale di bellezza che appartiene a questa città.
 
 
 
Segue subito un bell'incipit "monologato" in perfetto stile Allen, e se hai qualche pregiudizio come me, può sembrarti un po' noioso ma poi se ascolti bene e lasci andare il film ti rendi conto che, tra le idiosincrasie e le paranoie, dice delle cose sensate e anche molto belle come quando fa l'elenco delle cose per cui vale la pena vivere.
 
 
Mi piace moltissimo la scelta del bianco e nero che sublima tutto e che riesce a rendere, forse meglio che attraverso l'uso del colore, il senso delle luci e delle ombre. E poi il bianco e nero è da sempre la possibilità di fermare il tempo, o meglio di creare un'astrazione dal tempo stesso cristallizzando la realtà e anche questo mi piace molto.
Mi lascio portare via e mi immergo nel film.
 
La storia si rivela piuttosto semplice: un uomo sui quarantanni viene lasciato dalla moglie, la quale non sopportava più le di lui paranoie, e lui si innamora di una ragazzina di diciassette anni, dando però per scontato che la storia con la giovanissima Tracy sia solo un momento, un passaggio con una data di scadenza dovuta alla grande differenza di età tra i due. Isaac però si accorge ben presto che dentro a quel "momento" c'è tutta la purezza, lo slancio e la bellezza della giovinezza intesa come metafora stessa della vita. Quel momento acquista valore come sempre troppo tardi, dopo che il nostro amico, invaghitosi di una quarantenne (extracolta e raffinata, ma nevrastenica e indecisa) viene di nuovo lasciato.
Ed è tra un vernissage e una mostra d'arte contemporanea, tra le cene fintissime con presunti amici e i fallimenti professionali, che riappare il volto di Tracy, una delle cose per cui vale la pena vivere, come un bicchiere d'acqua incontaminato in contrapposizione all'acqua marrone che esce dai rubinetti dell'appartamento di Isaac, un'acqua torbida che diventa simbolo delle mutazioni del cuore degli abitanti della città stessa.

 


 
Ritorno nella mia stanza dopo un paio d'ore. Wow! Sono stata a New York negli anni settanta e questo tipo  di viaggio, nello spazio e nel tempo, non lo si può comprare, non è un articolo di cui il vostro tour operator di fiducia possa disporre.
Il potere del cinema! Non esiste crisi per chi lo ama, e per chi ama l'arte in generale, perchè i più grandi piaceri, ne sono convinta, non sono quelli che acquistiamo ma quelli che ci concediamo, sono le ore che riusciamo a sottrarre all'ordine del giorno.
"Con gli occhi posso rubare tutto ciò che vedo e portarmi tutto a casa, senza i limiti di peso per le valigie imposti da Ryan Air, e a casa potrò rivedere e rivivere tutto semplicemente sdraiandomi sul mio divano e chiudendo gli occhi".
Che bel modo di pensare. Spero di riuscire ad accumulare dentro ai miei occhi il maggior numero possibile di bei ricordi, nella mia vita.
Questa mattina di reminescenze, sottratta allo stiraggio, sarà senz'altro uno di questi.

 

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